La “ciambella” a cui fa riferimento il nome di Via dell’Arco della Ciambella alluderebbe, secondo alcuni, ad una corona bronzea ritrovata nella zona e somigliante, appunto, alle antiche ciambelle romane; secondo altri farebbe riferimento al nome di un’osteria denominata “Sciampella“. Senza dubbio possiamo affermare che fu l’osteria a prendere il nome dalla via e non viceversa e che il toponimo deriva dall’antico rudere romano (alto circa 10 metri) che ancora oggi possiamo ammirare (nella foto in alto) al di là di un paio di case che lo nascondono ed al quale si appoggiano: si tratta dell’unico tratto rimasto in piedi delle antiche “Terme di Agrippa” e corrispondente alla metà della grande sala circolare che era il fulcro ed il centro di tutto il complesso. Fino al Seicento la sala era pressoché intera, come documentano alcuni disegni dell’epoca, ed infatti veniva popolarmente chiamata “lo Rotulo“, “lo Tondo” o “lo Torrione“: da qui alla denominazione di “ciambella” il passo fu molto breve. Anche l’arco che scavalcava la strada, a cui fa riferimento il nome di Via dell’Arco della Ciambella, apparteneva alle stesse terme, ma scomparve nel 1621, in occasione dei lavori di sistemazione urbanistica eseguiti per volontà di Gregorio XV.
Le Terme (nella piantina 1) costruite da Marco Vipsanio Agrippa, genero di Augusto, tra il 25 ed il 19 a.C. sono le più antiche terme pubbliche di Roma e si estendevano nella zona tra via di Torre Argentina 1, via dei Cestari 2 e largo di Torre Argentina 4: via dell’Arco della Ciambella corrisponde al 3, al centro esatto della grande sala circolare. Erano alimentate con le acque dell’Acquedotto Vergine, le quali formavano anche un piccolo lago artificiale, posto ad ovest delle Terme, denominato “stagnum Agrippae“, ed utilizzato come piscina. L’impianto, che misurava non meno di 80-100 m di larghezza e circa 120 di lunghezza, era organizzato su due assi che si incrociavano in una grande sala circolare del diametro di circa 25 metri, coperta a cupola, attorno alla quale erano irregolarmente disposti tutti gli ambienti, alcuni absidali, altri con vasche e spazi aperti. Le Terme, dotate di impianti per acqua e aria calda, erano magnificamente decorate con affreschi, statue ed altre opere d’arte: qui infatti era collocato l’Apoxyomenos di Lisippo. Alla sua morte, nel 12 a.C., Agrippa lasciò l’intero complesso termale, per uso pubblico e gratuito, al popolo romano, che lo conservò a lungo come un prezioso bene personale. Le Terme furono gravemente distrutte nell’incendio dell’80 d.C. e quindi restaurate da Tito e soprattutto da Domiziano. Tra il 120 ed il 125 d.C. furono nuovamente restaurate da Adriano, contemporaneamente al Pantheon ed a tutta la zona circostante. Ulteriori interventi vi furono al tempo di Settimio Severo, di Massenzio e, infine, nel 345 d.C., al tempo di Costanzo e Costante, figli di Costantino. Intorno al V secolo si ha ancora menzione del loro funzionamento ma in seguito furono abbandonate (probabilmente intorno al VII secolo) e ben presto, come successe spesso per tanti altri monumenti, sistematicamente spogliate per il riutilizzo dei materiali edilizi.
Sotto la sezione sinistra della “ciambella” si trova un bel tabernacolo di stile rinascimentale in marmo con una copia ottocentesca della miracolosa “Madonna del Rosario” (nella foto 2), particolarmente venerata perché compì il miracolo di muovere gli occhi nel 1796 (“rinnovandosi questo miracolo per tre settimane”), a causa dell’invasione francese nello Stato Pontificio, insieme ad altre Immagini Sacre quali la Madonna dell’Arco dei Pantani, la Madonna dell’Archetto, la Madonna della Provvidenza, la Madonna Addolorata o quella posta nella chiesa di S.Niccolò de’ Prefetti. L’edicola è completata da un baldacchino in legno con frange intagliate, da una mensola con due lampioni ai lati e da un inginocchiatoio al di sopra del quale vi è una lapide che dice: “T’INNALZA O VERGINE CASTI PENSIERI CHI PENSA E MEDITA NE’ TUOI MISTERI. E TU NELL’ANIMA GLI ACCENDI AMORE ALLOR CHE INGENUO EI T’OFFRE IL CORE“. L’edicola apparteneva alla famiglia Capparucci, che vi celebrava la prima domenica di ottobre una solenne festa addobbandola con parati, lumi e fronde di mirto. Nel 1873 l’immagine fu spogliata e da allora i Capparucci toglievano ogni sera la tela dall’edicola sostituendola con una scritta, finché si trasferirono portando con loro l’immagine. Qualche anno dopo un falegname della zona commissionò al pittore Pietro Campofiorito la copia attuale: raffigura la Madonna che sorregge il Bambino e tiene nella mano destra un rosario.