Via dei Banchi Vecchi è una delle più interessanti strade del centro storico di Roma, originariamente divisa in due tratti: il primo era detto “Chiavica di S.Lucia del Gonfalone” sia per la presenza della chiesa omonima e sia per la presenza di una cloaca, ma più volgarmente era chiamata “Chiavica di Ponte” (qui si effettuava la “corsa degli ebrei”, prima che venisse trasferita a via del Corso, in occasione delle feste di Carnevale); il secondo tratto era chiamato della “Cancelleria Vecchia”, dagli uffici della Cancelleria che si trovavano, prima della costruzione del nuovo palazzo della Cancelleria, all’interno di Palazzo Sforza Cesarini (nella foto sopra). Il nome di “Banchi”, esteso alla zona che comprende anche le attuali via dei Banchi Nuovi e via del Banco di S.Spirito, si riferiva, appunto, ai banchi dove negozianti, banchieri, notai, scrivani e mercanti di ogni genere esercitavano i loro affari, sfruttando la vicinanza di S.Pietro e di ponte S.Angelo, dove il transito dei pellegrini era pressoché ininterrotto.
La via prese il nome di “Banchi Vecchi” allorché il trasferimento della Zecca Pontificia da palazzo Sforza-Cesarini al “Canale di Ponte” (oggi corrispondente a via dei Banchi Nuovi e via del Banco di S. Spirito), indusse i banchieri fiorentini a trasferire i loro uffici di cambio vicino alla nuova sede. In alcuni documenti via dei Banchi Vecchi era anche detta “dei bicchierari“, forse così soprannominata dal popolino a causa dei numerosi uffici di notai e scrivani che adoperavano i “bicchieri” con la sabbia per asciugare gli scritti. Come sopra menzionato la via ospita palazzo Sforza Cesarini, risalente, nella sua struttura più antica, al 1458, quando fu costruito per Rodrigo Borgia, nominato da suo zio, papa Callisto III (1455-58), vice cancelliere di Santa Romana Chiesa. Quando Rodrigo Borgia divenne papa con il nome di Alessandro VI (1492-1503) lasciò il palazzo al cardinale Ascanio Sforza a compenso del sostegno da lui avuto in conclave. L’edificio in seguito venne assegnato in parte ai nipoti di papa Giulio II e qui i cardinali Sforza e Della Rovere svolsero le funzioni di cancellieri della Chiesa. Per alcuni anni all’interno del palazzo operò la Zecca Pontificia, come sopra menzionato, finché nel 1504 papa Giulio II la fece trasferire nel palazzo a “Canale di Ponte“. Il palazzo ospitò anche gli Uffici della Cancelleria, ma anche questi vennero trasferiti per volontà di Leone X (1513-21) nel Palazzo della Cancelleria, cosicché palazzo Sforza Cesarini divenne il palazzo della “Cancelleria Vecchia”. Nel 1536 il palazzo tornò di proprietà della famiglia Sforza, la quale nel 1697 si imparentò con la famiglia Cesarini e così il casato si unificò negli Sforza Cesarini. I lavori di realizzazione di Corso Vittorio Emanuele II, effettuati nel 1886, decretarono numerosi cambiamenti per l’edificio, soprattutto per le ali prospicienti piazza Sforza Cesarini e Corso Vittorio Emanuele II: in particolare quest’ultima fu notevolmente ridotta (con la scomparsa del giardino antistante) e fu ricostruita la facciata (che prima si affacciava sulla demolita “piazza Pizzo del Merlo“). La facciata del palazzo su via dei Banchi Vecchi risale al 1730 ed è opera dell’architetto Pietro Passalacqua: si presenta con tre piani a nove finestre ed un grande portale (nella foto 1), affiancato da finestre inferriate e sottostanti finestrelle e sovrastato da un balcone balaustrato sul quale si apre una finestra a timpano triangolare. Nel cortile rimane l’ala destra del palazzo originario con un porticato quattrocentesco ed un loggiato a sei arcate murate nella parte retrostante l’androne: su una porta del cortile resiste ancora la scritta “GAL. VICE CANCEL.”, in riferimento al cardinale Galeotto Della Rovere che restaurò il palazzo nella prima metà del Cinquecento.
Al civico 12 della via è situata la chiesa di S.Lucia del Gonfalone (nella foto 2), originariamente però situata sulla odierna via del Gonfalone, dove vi era un “oratorium S.Luciae qui ponitur in xenodochio“, ovvero un oratorio con ospizio risalente alla fine del XII secolo. La chiesa attuale, edificata nel 1511 e per questo denominata anche “S.Lucia Nuova” per distinguerla dalla Vecchia, venne affidata all’Arciconfraternita del Gonfalone, la più antica delle congregazioni romane, istituita probabilmente da S.Bonaventura nel 1263 ed approvata da Clemente VI due anni dopo con il nome di “Compagnia dei Raccomandati della Ss.Vergine”. La Compagnia, che aveva sede nella chiesa di S.Maria Maggiore, si distinse nei tumulti che avvennero dopo la morte di Cola di Rienzo e, contrastando i baroni, fu determinante il suo impegno nel far eleggere come capo del Governo cittadino Giovanni Cerroni, al quale verranno concessi pieni poteri anche in virtù del riconoscimento da parte della Curia papale. Il termine “gonfalone” significa bandiera o stendardo e fa riferimento al fatto che nel XIV secolo, nelle sue processioni, la Confraternita usava alzare la bandiera del Papa (in quel momento ad Avignone) per ribadire la sua sovranità su Roma. Il riconoscimento ufficiale del nuovo nome venne concesso nel 1486 da Innocenzo VIII e sotto la sua insegna si aggregarono altre 250 congregazioni, dando così origine all’Arciconfraternita. La chiesa fu ricostruita nel 1764 da Marco David, insieme alla Casa Generalizia dell’Arciconfraternita situata nell’adiacente via delle Carceri, mentre l’interno fu decorato da Francesco Azzurri nel 1866; notevole l’altare maggiore con la bellissima tavola cinquecentesca dedicata alla “Madonna del Gonfalone”. Fino a non molti anni fa il giorno di festa della santa, il 13 dicembre, era salutato con la “Spasa”, cosiddetta probabilmente per la gran quantità di merci “sparse” per le strade della zona, così esposte alla folla che accorreva per partecipare al culto della veneratissima santa: durante la festa era usanza offrire occhi d’argento o di cera a S.Lucia come dono di ringraziamento.
Al civico 22 della via fa bella mostra di sé una piccola ma originalissima palazzina che il ricco orefice milanese Pietro Crivelli si fece costruire tra il 1538 ed il 1539 e soprannominata “la Casa dei Pupazzi” (nella foto 3) per la ricca decorazione in stucco che caratterizza la facciata. L’edificio costituisce la prima ubicazione conosciuta del Monte di Pietà a Roma: Crivelli, che svolse la sua attività di orefice principalmente presso la Corte pontificia, inizialmente mise a disposizione la propria bottega per l’attività di prestito e successivamente cedette al Monte i diritti e l’uso della bottega e della casa sovrastante. Nel tratto di marcapiano sopra il portone compare la seguente iscrizione: “IO PETRUS CRIBELLUS MEDIOLANEN(SIS) SIBI AC SUIS A FUNDAMENTIS EREXIT“.
Al primo piano si aprono quattro finestre rettangolari, divise da stucchi con trofei di scudi e corazze (nella foto 4), sormontati da un fregio con alcuni grotteschi mascheroni alternati a teste leonine. Al secondo piano la decorazione prosegue con quattro finestre, sormontate da timpani curvi e triangolari, tra le quali vi sono alte candeliere rette da graziosi puttini; sopra i timpani, coppie di satiri reggono lunghi festoni vegetali. L’ultimo piano, strutturato come una loggia, è diviso da paraste con capitelli corinzi: anche qui, quattro finestre, due curve e due rettangolari. Queste ultime sono sovrastate da bassorilievi che rappresentano due importanti episodi avvenuti durante il pontificato di Paolo III: nel primo si vede Carlo V che bacia il piede al papa, mentre il secondo raffigura Paolo III che riconcilia Carlo V e Francesco I a Nizza. La paternità degli stucchi vengono attribuiti al piacentino Giulio Mazzoni, anche se eseguiti probabilmente su disegno dello stesso Crivelli.
Al civico 132 è situata la Casa dell’Ospizio dei Pellegrini Boemi (nella foto 5), la costruzione della quale risale al 1457, come indica la lapide in latino (nella foto 6) posta sulla facciata: “CAROLUS IMPERATOR IIII REX BOEMIE ME FECIT ET H RORAW PROCURATOR HOSPITALIS PRESENTIS ET NACIONIS BOHEMORUM RUINOSUM REFECIT ANNO MCCCCLVII“, ovvero “Mi fece l’Imperatore Carlo IV Re di Boemia e mi rifece H.Roraw, procuratore di questo ospedale e della nazione boema, quando ero in rovina nell’anno 1457”.
L’istituzione dell’ospizio risale al 931, quando il re Boleslao I di Boemia venne in pellegrinaggio a Roma e lo fondò per i pellegrini boemi dedicandolo a S.Metodio apostolo. Quando nel 1354 Carlo IV, re di Boemia, venne a Roma per essere incoronato imperatore, concesse all’ospizio particolari finanziamenti, grazie ai quali l’antico edificio un secolo dopo fu demolito e ricostruito. L’edificio mantiene una fisionomia quattrocentesca con un bel portoncino arcuato a bugne regolari; fu sopraelevato nell’Ottocento e restaurato nel 1988. Da tempo è destinato ad abitazione civile.
All’altezza del civico 145 è murato un cippo (nella foto 7) conosciuto come il “pomerio di Claudio” che ricorda un allargamento del pomerio attuato dall’imperatore Claudio nell’anno 49 d.C. I confini furono segnati con 142 o 143 cippi, ognuno con un numero ordinale. Così recita la lapide: “(T)I(BERIUS) CLAUDIUS (D)RUSI F(ILIUS) CAISAR (A)UG(USTUS) GERMANICUS P(ON)T(IFEX) MAX(IMUS) TRIB(UNICIA) POT(ESTATE) (V)IIII IMP(ERATOR) XVI CO(N)S(UL) IIII (C)ENSOR P(ATER) P(ATRIAE) (AU)CTIS POPULI ROMANI (FI)NIBUS POMERIUM (A)MPLIAVIT TERMINAVITQ(UE) XXXV“, ovvero “Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico, figlio di Druso, Pontefice Maximo, insignito della nona potestà tribunicia, Imperatore per la sedicesima volta, Console per la quarta, Censore, Padre della Patria, avendo accresciuto i confini del popolo romano, ampliò e definì il pomerio – (numero) 35”.
Infine, al civico 148 della via, è situato un edificio che costituisce il fondale della via e linea di separazione di due rioni, Parione e Regola, e due vie, via del Pellegrino e via di Monserrato: si tratta della cosiddetta Casa di Pietro Paolo della Zecca (nella foto 8), ovvero Pietro Paolo Francisci detto “della Zecca” perché era sovrintendente della Zecca pontificia (situata a palazzo Sforza-Cesarini, come sopra menzionato) sotto il pontificato di Paolo II Barbo (1464-1471). L’edificio risale alla seconda metà del Quattrocento ma agli inizi del Cinquecento fu decorato da Polidoro da Caravaggio e Maturino da Firenze. Gli affreschi raffiguravano la leggendaria storia della giovane Clelia, l’antica romana fuggita dall’accampamento degli Etruschi del re Porsenna che la teneva prigioniera: oggi le tracce rimaste degli affreschi sono poche, ma comunque ancora evidenti. La testata dell’edificio presenta un bel portale architravato, le finestre ai tre piani sono centinate con cornice di travertino, mentre al quarto piano si trova una loggia con colonnine.
Nel 1452 la casa ospitò Federico III d’Asburgo, venuto a Roma per essere incoronato imperatore del Sacro Romano Impero, e la moglie Eleonora di Portogallo: a ricordo dell’evento fu murato sul lato destro dell’edificio un rilievo con l’aquila asburgica (nella foto 9): questa, nel XIX secolo, era divenuta il simbolo della dominazione austriaca in Italia e quindi, subito dopo il 1870, quando Roma divenne capitale d’Italia, il rilievo fu tolto e spostato nel cortile del collegio di S.Maria dell’Anima, chiesa nazionale germanica, dove tuttora si trova. Alla base del rilievo si possono vedere, a grandi caratteri, le lettere “AEIOU”, un acronimo il cui significato non fu mai chiarito ufficialmente dall’imperatore, anche se l’interpretazione più accreditata è la seguente: “Alles Erdreich Ist Österreich Untertan“, ovvero “L’intero mondo è soggetto all’Austria”, oppure, con il medesimo significato ma in latino, “Austriae Est Imperare Orbi Universo“, ovvero “Spetta all’Austria governare il mondo”.