Vicolo del Campanile prende il nome dal campanile (nella foto sopra) della vicina chiesa di S.Maria in Traspontina. Al civico 4 del vicolo si trova una bella casa quattrocentesca a tre piani (nella foto 1) con finestre centinate e resti di decorazioni a graffito sulla facciata (tuttora visibili, seppure con qualche difficoltà) che fu restaurata nel 1936 dal professor A. M. Zamponi per interessamento di Giuseppe Latmiral, proprietario del palazzo nel quale la casa stessa è inglobata, e con il concorso finanziario del Governatorato di Roma.
Molto incerta l’attribuzione delle decorazioni, anche se Giorgio Vasari ritenne che l’autore fu Giulio Romano, che nel 1520 circa fece “a mezzo Borgo Nuovo una facciata di grafito con alcuni prigioni e molte altre opere belle“. Il pianterreno, con il portone, è graffiato a finte bugne; al primo piano, tra quattro finestre ad arco, sono rappresentati “quattro re Daci prigionieri su un fondo di panoplie” ed il “Guardiano di vacche addormentate assalito da Mercurio“; nel fregio fra il primo ed il secondo piano l’emblema mediceo (l’anello a punte di diamante e tre penne di struzzo) fra leoni affrontati; al secondo piano quattro figure femminili mitologiche ed Argo con tre vacche; nel fregio sovrastante leoni alati affrontati e vasi con frutta; all’ultimo piano teste di leoni.
In questa stessa casa abitò Giovan Battista Bugatti, più noto con il nome di “Mastro Titta“, famoso “boia” della Roma pontificia: nella foto 2 il portale d’ingresso su Vicolo del Campanile. Questo personaggio lasciò un preciso elenco delle “giustizie” da lui compiute, registrando per ognuna di esse le generalità della vittima, il luogo delle esecuzioni ed il crimine commesso. Da questo elenco veniamo a sapere che gli interventi di Mastro Titta assommano a 516, eseguiti dal marzo 1796 all’agosto 1864. Le esecuzioni avvenivano, in una sorta di rappresentanza teatrale, a Ponte S.Angelo, a Piazza del Popolo o a Via dei Cerchi. Ci è stato tramandato come uomo bonario, educato e felice di compiere il suo dovere, per il quale riceveva il simbolico compenso di un “papetto”, ovvero tre centesimi di lira romana. Indiscutibilmente, Mastro Titta divenne il nome emblematico del boia pontificio, anche se non fu l’ultimo giustiziere del papa: infatti, quando andò “in pensione”, gli subentrò Vincenzo Balducci, suo aiutante dal 1850, che seguitò la cruenta missione fino al 9 luglio 1870.