Il tracciato attuale di Via della Lungara (nella foto sopra) corrisponde al tracciato di un via antica che, all’altezza di piazza di S.Egidio, si staccava dall’antica “via Aurelia” e si dirigeva a nord, verso il Vaticano, seguendo il percorso dell’odierna via della Scala fino alla porta Settimiana. La strada era conosciuta come “Sub Janiculensis” o “Sub Jano” per la sua percorrenza sotto il Gianicolo, ma anche come “via Sancta” per i pellegrini che la percorrevano per recarsi alla tomba di Pietro. Fu sotto Papa Alessandro VI Borgia (1492-1503) che la strada venne iniziata ma fu Giulio II Della Rovere (1503-13) a darle una sistemazione definitiva, in simmetria con la via Giulia sulla sponda opposta del Tevere, tanto che, inizialmente, anche Via della Lungara era chiamata “via Julia” finché ebbe l’attuale denominazione per la sua lunghezza in rettifilo. La sponda antistante la via era popolata di case e giardini che arrivavano fino al fiume, ma fu tutto demolito sul finire dell’800, quando si costruirono i muraglioni del Tevere: fino ad allora le barche navigavano il fiume proprio accanto alla sede stradale.
Iniziamo la visita di Via della Lungara partendo dalla porta Settimiana dove troviamo, ad essa appoggiato, Palazzo Torlonia (nella foto 1), la struttura originaria del quale risale al Seicento, quando funzionava come magazzino di un mulino che sfruttava l’energia motrice dalla caduta dell’Acqua Paola dal Gianicolo. L’edificio fu acquistato nell’Ottocento dai Torlonia, che lo ristrutturarono e lo adattarono a residenza per la famiglia, nonostante possedessero anche il palazzo sull’attuale via della Conciliazione e quello oggi scomparso di piazza Venezia (situato dove oggi sorge il Palazzo delle Assicurazioni Generali). Il palazzo, ad angolo con via Corsini, dove è un ingresso secondario al civico 5, sviluppa due ordini di finestre a cornice semplice, sovrastanti, al primo piano, una fascia marcapiano. Sulla fascia bugnata del pianterreno si apre un portale tra finestre riquadrate ed inferriate, mentre un cantonale bugnato racchiude la facciata ad angolo con via Corsini. Tra il primo ed il secondo piano si trova lo stemma dei Torlonia, due comete separate da una sbarra. Nel 1859, per volere di Alessandro Torlonia, all’interno del palazzo venne allestito un museo per ospitare la ricca collezione d’arte che costituiva il più grande museo privato di Roma. I Torlonia salirono alla ribalta della cronaca romana nei primi anni del XIX secolo, dopo aver accumulato enormi ricchezze grazie alle loro attività commerciali e soprattutto finanziarie. Per tradizione hanno sempre fatto i banchieri: prestavano soldi e come garanzia pretendevano opere d’arte. Le opere in parte erano state acquistate ma più spesso erano le grandi famiglie romane, tutte indebitate con i Torlonia, a saldare i debiti svendendo le loro collezioni d’arte. In questo modo, i principi entrarono in possesso delle collezioni Giustiniani, Cavaceppi, Orsini, Caetani. Altre opere provenivano per lo più dagli scavi archeologici nei terreni di proprietà della famiglia, che erano vastissimi: in particolare venne saccheggiata la Villa dei Quintili sull’Appia Antica, la più grande villa del suburbio romano, che lo Stato Italiano acquistò soltanto nel 1985. Nel 1880 fu curato da Pietro Ennio Visconti l’unico catalogo della raccolta, comprendente 530 sculture. La definizione di museo non è propriamente esatta per la definizione moderna che diamo oggi al termine, in quanto non rappresentò un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo. Il principe Alessandro infatti era l’unico a poter dare approvazione ai richiedenti per la visita della collezione ed arrivò a negarla al celebre archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli che nel 1947 rivestiva il ruolo di Direttore Generale delle Antichità e Belle Arti, il quale, si racconta, si travestì da spazzino pur di riuscire ad entrare nel palazzo per vedere le opere esposte. Il 22 dicembre dell’anno seguente, il Ministro della Pubblica Istruzione Guido Gonella pose sotto vincolo sia la collezione che l’edificio ospitante ma ciò non impedì purtroppo al principe Alessandro, nel decennio compreso tra il 1960-70, tramite autorizzazione per la risistemazione del tetto, di apportare massicce modifiche al palazzo, trasformandolo in 93 mini appartamenti abusivi e trasferendo la collezione nei magazzini dello stesso ed in altre residenze. A nulla valsero la sentenza della Corte di Cassazione, la quale stabilì che il privato è “condannato al pagamento in favore dello Stato di una somma pari al valore della cosa perduta (in questo caso derivante dalla sottrazione del museo alla vista della collettività) o della diminuzione di valore subìta per effetto del suo comportamento“, mai applicata, oppure la proposta di legge del 2002 firmata da 43 deputati che si proponeva di confiscare le opere come risarcimento del danno inflitto alla collettività, seppure il valore della collezione fosse considerato inestimabile. Dopo successivi confronti tra l’amministrazione capitolina e la famiglia Torlonia al fine di trovare un’intesa per un’esposizione delle opere, finalmente il 15 marzo 1916 si è giunti ad un accordo tra il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo ed i rappresentanti della Fondazione Torlonia onlus, per la valorizzazione della raccolta: infatti nel 2018 è prevista l’esposizione della Collezione Torlonia, prima a Roma e poi in altre sedi all’estero, comprendente tra le 60 e le 90 sculture più rappresentative.
Oltrepassata Via Corsini troviamo, sulla sinistra di Via della Lungara, Palazzo Corsini (nella foto in alto sotto il titolo il prospetto sulla via, mentre nella foto 2 la facciata posteriore sul parco), eretto nel XV secolo per il Cardinale Riario, nipote di Sisto IV. L’edificio era costituito di tre piani con le scuderie sulla sinistra ed un cortile sulla destra, oltre ad un grande giardino posteriore verso il Gianicolo. La splendida villa passò in eredità a Francesco Riario Sforza, che la donò nel 1518 al fratello Galeazzo. Nel 1587 la villa fu affittata a Mario I Sforza, conte di Santa Fiora, nel 1593 al cardinale Paolo Sfondrati e nel 1611 a Pompeo Targone, architetto al servizio di Alessandro VII, finché nel 1669 vi abitò Cristina di Svezia. La regina di Svezia si era convertita al cattolicesimo ed aveva abdicato trasferendosi a Roma: accoltavi con tutti gli onori il 20 settembre 1655, aveva risieduto per un anno a Palazzo Farnese. Dopo aver viaggiato per l’Europa per alcuni anni, tornò a Roma per risiedervi definitivamente nel 1668: dimorò in questo palazzo fino alla sua morte, avvenuta nel 1689. Con Cristina la villa ebbe il suo massimo splendore, sia per quanto riguarda il parco, dove fece piantare un numero straordinario di piante ed edificare terrazze e fontane, sia per quanto riguarda il palazzo, il cui arredamento fu degno di una sovrana. Nel 1732 il duca Nicola Riario Sforza vendette il palazzo al cardinale Neri Corsini ed a suo fratello, il principe Bartolomeo III, viceré di Sicilia, i quali affidarono la ricostruzione dell’edificio a Ferdinando Fuga. L’acquisto del palazzo fu determinato dalla necessità di insediare in un luogo ampio e razionale la biblioteca e la pinacoteca del casato. Il Fuga non distrusse la costruzione rinascimentale, ma ne raddoppiò le strutture convergenti sul cortile, dando un rinnovamento completo all’edificio sulla facciata di Via della Lungara, con i tre ordini di finestre a cornici e timpani diversi ad ogni piano, balconi al piano nobile (nella foto 3) ed un grandioso portale a triplice fornice sormontato da un balcone sorretto da mensole, sul quale si affacciano tre grandi finestre con gli stemmi dei Corsini.
L’ingresso, lungo un androne tripartito (nella foto 4), porta al giardino retrostante con passaggio per le carrozze ed è affiancato da due rampe di scale che portano ai piani superiori. La biblioteca e la pinacoteca furono sistemati al piano nobile. Il cardinale Lorenzo Corsini, poi papa con il nome di Clemente XII, sistemò personalmente la biblioteca e dispose affinché venisse aperta al pubblico. Nel 1797 Palazzo Corsini fu scenario di importanti eventi: dato che Giuseppe Bonaparte, ambasciatore del Direttorio, aveva posto qui la sua residenza, fu qui che venne ucciso il generale francese Duphot in uno scontro tra papalini e repubblicani. L’occupazione francese della città e la deportazione di Papa Pio VI segnarono l’inizio del breve periodo della Repubblica Romana.
Il palazzo ospitò altri ospiti illustri come Erasmo da Rotterdam, Michelangelo, madama Letizia ed il cardinale Fresch. Nel 1884 Tommaso Corsini vendette il palazzo al Governo Italiano, che vi insediò l’Accademia dei Lincei, una fondazione culturale istituita nel 1603 e tuttora qui ospitata, che ebbe tra i suoi membri anche Galileo Galilei ed alla quale furono donate la biblioteca e la pinacoteca. Il Comune acquistò invece parte del parco retrostante e lo destinò ad ospitare l’Orto Botanico (che contiene una collezione di più di 7.000 specie vegetali provenienti da tutto il mondo) e la passeggiata del Gianicolo: qui vi era anche un casino, demolito per far posto al Monumento a Garibaldi. La pinacoteca è divenuta Galleria Nazionale d’Arte Antica, con una collezione di dipinti di Rubens, Van Dyck, Murillo, Caravaggio, Guido Reni ed altri artisti italiani del XVII e XVIII secolo.
Su Via della Lungara, di fronte a Palazzo Corsini, sorge un’altra gemma di Roma, la bellissima Villa Farnesina (nella foto 5 l’originario ingresso principale), che il ricco banchiere Agostino Chigi commissionò nel 1508 al suo concittadino senese Baldassarre Peruzzi. Il disegno semplice ed armonioso, con un corpo centrale e due avancorpi laterali, ne fanno una delle prime vere ville rinascimentali. La scelta della villa suburbana riflette la personalità del committente, onorato dai contemporanei con il titolo di “Magnifico”, che volle un complesso residenziale consono al genere di vita da lui condotta e non lontano dalla sua casa di città e dal banco in via dei Banchi. La morte di Agostino Chigi, nel 1520, ed il Sacco di Roma del 1527 segnarono un periodo di decadenza ed abbandono di villa Chigi (così allora era denominata) che venne così depauperata degli arredi e delle opere d’arte. Nel 1579 la villa fu acquistata dal cardinale Alessandro Farnese, donde il nome di “Villa Farnesina”: un ardito progetto di Michelangelo avrebbe voluto collegare questa villa all’altro grande palazzo di famiglia, palazzo Farnese, tramite un lungo ponte che avrebbe scavalcato il Tevere, ma l’opera non fu portata a termine per la morte di papa Paolo III e testimonianza del progetto ne è il cosiddetto Arco dei Farnesi. In seguito la Villa fu abbandonata e venne ceduta occasionalmente ad ospiti eccellenti come il cardinale Richelieu, il cardinale Federico di Assia-Darmstadt, la regina Cristina di Svezia e diversi ambasciatori di Luigi XIV. Nel 1735 l’edificio, a seguito del matrimonio tra Elisabetta Farnese e Filippo di Borbone, re di Spagna, passò con l’eredità a Carlo IV di Borbone, re delle Due Sicilie, e divenne residenza di vari diplomatici napoletani finché Francesco II di Napoli, ritiratosi a Roma dopo l’abdicazione, concesse la Farnesina in enfiteusi per 99 anni all’ambasciatore di Spagna a Napoli, Salvador Bermudez de Castro, duca di Ripalta. Infine la Villa fu acquistata nel 1927 dallo Stato italiano che la destinò a sede dell’Accademia d’Italia e nel 1944 la diede in proprietà all’Accademia Nazionale dei Lincei, situata nell’antistante Palazzo Corsini. La pianta della palazzina presenta una caratteristica forma a C (visibile nella foto 5), con i due avancorpi simmetrici ai lati del corpo centrale che si protendono verso l’ampio giardino. A differenza dei coevi palazzi rinascimentali, dotati di un cortile interno, la luce proviene dall’esterno mediante le logge aperte: la Loggia di Psiche, orientata a nord, e la Loggia della Galatea, verso est, per creare maggiore refrigerio. L’edificio è costituito da due piani scanditi da due ordini di lesene doriche, tra le quali si aprono semplici finestre architravate; la cornice marcapiano è sottolineata da piccole finestre. Originariamente l’ingresso avveniva tramite la bellissima Loggia di Psiche (nella foto 5), a cinque arcate, e la base dell’edificio, come nei palazzi toscani del Rinascimento, era circondata da uno zoccolo sporgente ad uso sedile per gli ospiti intenti a leggere o a conversare, scomparso nell’Ottocento in seguito al rialzamento del terreno.
Il prospetto della facciata posteriore (nella foto 6), dove oggi è situato l’accesso alla Villa, è continuo, con due ordini di finestre architravate su cornici marcapiano scandite da lesene; al pianterreno si apre un portale architravato preceduto da una breve scala realizzata nell’Ottocento: molto belli gli stucchi dell’architrave, con palme e cespi d’acanto, realizzati da Baldassarre Peruzzi. La Villa fu decorata tra il 1510 ed il 1519 dallo stesso Peruzzi, da Sebastiano del Piombo, da Raffaello e dai suoi allievi che vi aggiunsero opere più elaborate. Nei primi mesi del 1511 Baldassarre Peruzzi, ultimate le strutture architettoniche, aveva appena iniziato la decorazione della volta della Loggia di Galatea quando Agostino Chigi fece ritorno da Venezia e si trasferì alla Farnesina portando con sé il giovane Sebastiano del Piombo, uno dei maggiori talenti pittorici dell’ultima generazione lagunare. Forse insoddisfatto dell’andamento dei lavori, lo affiancò al Peruzzi, ingaggiando poco dopo per la decorazione anche Raffaello.
Negli affreschi delle nove lunette (la decima, nella foto 7, fu decorata da Peruzzi con una gigantesca “Testa di Giovane”), Sebastiano dipinse così varie scene tratte delle Metamorfosi di Ovidio, quindi affrescò su una parete una grande figura di Polifemo, mentre Raffaello, con riferimento alla stessa leggenda, decorò uno dei campi parietali con la leggiadra figura di Galatea (nella foto 8), la bella ninfa colta tra gli abitatori del mare mentre si allontana dal suo corteggiatore su un fantastico cocchio tirato da delfini. In quest’opera si disse che Raffaello raffigurò la splendida amante del Chigi, quella celeberrima Imperia che faceva parlare di sé tutta Roma.
A Raffaello è legato un altro aneddoto: si dice che il Chigi consentì all’artista, che non riusciva a portare a termine il lavoro affidatogli perché innamorato di una donna, di lavorare alla presenza della donna amata (con tutta probabilità Margherita Luti, più nota con il nome di Fornarina).
Baldassarre Peruzzi affrescò la volta (nella foto 9) con vari temi mitologici entro riquadri geometrici, determinati dall’architettura dipinta che si raccorda a quella della parete. Al centro, in un ottagono regolare, si trova lo stemma del committente, affiancato da due scene più lunghe, pure di forma ottagono allungato: a sinistra la Fama annuncia la gloria terrena del banchiere, vicino a Perseo che uccide la Medusa, secondo un’iconografia derivata dall’Urania di Giovanni Pontano e dalle Mitologie di Fulgenzio; a destra Elice, la ninfa del polo celeste, ricorda come gli onori terreni dipendono dal favore degli astri. Seguono dieci pennacchi (doppi agli angoli, per un totale quindi di 14) con varie figure mitologiche/simboliche e dieci esagoni con varie divinità, intervallate negli spazi triangolari residui da putti a cavallo di animali fantastici a monocromo. Negli esagoni si vedono il Ratto di Ganimede, Venere in Toro, Apollo/Sole in Sagittario, che ricorda il segno del Chigi (nato il 29 novembre 1466 alle 21.30), Mercurio in Scorpione e Marte in Bilancia, Diana/Luna in Vergine (l’ascendente del Chigi al momento del concepimento), ed ancora Ercole ed il leone nemeo, Ercole e l’idra di Lerna, Leda ed il cigno (indicatore per determinati movimenti astrologici), Giove in Toro (influenza benigna che determina il carattere generoso e magnanimo di Agostino), Saturno nella Vergine. In definitiva si tratta quindi della raffigurazione dell’oroscopo personale di Agostino Chigi. I dipinti della sala vennero ritoccati nel 1863 e restaurati tra il 1969 ed il 1973.
Le arcate della Loggia della Galatea verso il Tevere furono chiuse nel 1650 (nella foto 10) con decorazioni nei muri attribuite al Dughet; un duplice ordine di lesene doriche scandisce le pareti esterne, concluse in alto da un cornicione sul quale corre un fregio decorato a festoni con frutta e fiori retti da putti, intervallato da piccole finestre quadrangolari.
Baldassarre Peruzzi diede inizio all’affresco che contorna, in alto, la cosiddetta Stanza del Fregio (nella foto 11), un locale destinato a sala d’aspetto per gli ospiti ma anche ad importanti cerimonie come la lettura del testamento del banchiere. Nel fregio, con evidente allusione allegorica alle virtù del committente, l’artista affrescò le dodici fatiche di Ercole ed altre imprese dell’eroe, nonché vari episodi mitologici.
Al pianterreno della Villa si trova la Loggia di Amore e Psiche, originariamente aperta verso il giardino mediante 5 grandi archi, oggi chiusi da vetrate, che prende il nome dalla decorazione ad affresco (nella foto 12) dipinta nel 1518 sulla volta dalla scuola di Raffaello su disegni del maestro, dove si raffigurarono episodi ispirati all’Asino d’oro di Apuleio, della favola di Amore e Psiche, già impiegata nel Quattrocento per immagini di argomento nuziale. La Loggia serviva da palcoscenico per le feste e le rappresentazioni teatrali organizzate dal proprietario. Per dare un carattere festoso e spettacolare all’ambiente, Raffaello trasformò la volta della Loggia d’ingresso in una pergola, come se i pergolati ed i padiglioni del giardino si fossero prolungati all’interno della Villa in ricchi festoni. Al centro due finti arazzi: il sontuoso “Convito degli Dei”, in cui la fanciulla ingiustamente perseguitata viene infine accolta nel consesso divino, e “Le nozze di Amore e Psiche”, culmine simbolico dell’intero ciclo. La critica è concorde nell’attribuire a Raffaello l’ideazione del programma decorativo ma l’esecuzione ai suoi allievi Giulio Romano, Giovanni Francesco Penni, Giovanni da Udine e Raffaellino del Colle.
Al primo piano della Villa è situata la cosiddetta Stanza delle Nozze (nella foto 13), originariamente la stanza da letto di Agostino Chigi ma poi così denominata dal grande affresco che occupa tutta la parete settentrionale, realizzato dal pittore senese Giovanni Antonio Bazzi, detto il Sodoma, che raffigura le nozze di Alessandro Magno e Roxane. Fulcro della narrazione, sulla parete nord, la scena stessa dell’adempimento nuziale, con il condottiero macedone in atto di offrire la corona alla sua sposa la quale, attorniata da amorini, lo attende sul bordo di un sontuoso letto a baldacchino.
Accanto a questa stanza è situata la Sala delle Prospettive (nella foto 14), ovvero la “sala grande” della Villa, dove il 28 agosto 1519 Agostino Chigi tenne il suo banchetto di nozze con la veneziana Francesca Ordeaschi, a cui partecipò anche papa Leone X.
Il nome della sala deriva dalla decorazione di Baldassarre Peruzzi che nel 1519 affrescò sulle pareti vedute prospettiche (nella foto 15) aperte con finti colonnati su scorci urbani e campestri. Attraverso il finto loggiato appare l’ampia veduta della città di Roma, così come rappresentata nelle piante e nelle vedute del XV secolo, dove emergono gli edifici-simbolo della città cristiana e pagana: il Colosseo, la Torre delle Milizie, l’Acquedotto Claudio, ma anche la Chiesa di S.Spirito ed una basilica romanica. Da notare, inoltre, che è rispettata la reale ubicazione della villa nella sua posizione, fra Porta Settimiana, il Gianicolo e l’Ospedale di S.Spirito.
Nel corso dei recenti restauri, tra le colonne, è venuta alla luce la sarcastica scritta (nella foto 16), datata, in lingua tedesca ed a caratteri gotici, che registra il passaggio dei Lanzichenecchi: “1528 – perché io scrittore non dovrei ridere: i Lanzichenecchi hanno fatto correre il Papa”. Sopra il grande camino che caratterizza la sala (nella foto 14), il Peruzzi dipinse la “Fucina di Vulcano”, dando vita ad una lunga tradizione che vede il dio del fuoco associato ai domestici caminetti di tutta Europa. Il grande fregio dipinto che corre lungo tutto il salone nella parte superiore delle pareti raffigura scene mitologiche eseguite dal Peruzzi e dalla sua bottega, intervallate da finti bassorilievi con erme femminili. Oltre alla Villa, la proprietà comprendeva l’edificio delle scuderie, disegnato da Raffaello e demolito nel 1808 dopo un lungo periodo di abbandono, ed una loggia situata sull’argine del Tevere, al limite delle Mura Aureliane, anch’essa demolita, dopo anni di abbandono, tra il 1884 ed il 1886 per i lavori di arginamento del Tevere. In questa loggia il Chigi era solito accogliere le più insigni personalità dell’epoca, quali artisti, poeti, cardinali, principi e lo stesso pontefice: si narra che i suoi conviti fossero davvero favolosi e che le portate venissero servite in vasellame d’oro che, una volta usato, venisse gettato nel Tevere. Ma sembra che il Chigi fosse assai furbo e che reti capienti fossero sistemate sul letto del fiume, cosicché di notte si potesse ripescare il patrimonio gettato nel Tevere. La Villa era completata da un ricco insieme di giardini che davano al complesso l’aspetto di un magnifico “viridario”. Nella parte pianeggiante il giardino era regolato da aiuole geometriche, mentre la parte scoscesa, verso il Tevere, era lasciata libera, unendo giardinaggio ed orticoltura. In armonia con la tipologia del giardino romano, numerose erano le statue antiche ed i viali erano decorati da sarcofagi, frammenti marmorei ed iscrizioni. Alla fine del Settecento il giardino appariva in stato di abbandono mentre agli inizi del XIX secolo fu modificato con finalità decorative, ma più pratiche, con alberi da frutto ed ortaggi. Tuttavia il timore della malaria, cui la zona era interessata, portò al totale abbandono del giardino. Tra il 1884 ed il 1886 la costruzione degli argini del Tevere ne sacrificò l’originaria estensione ma fortunatamente nel 1929, con l’insediamento della Reale Accademia d’Italia (o dei Lincei), il giardino riacquistò la sua originaria bellezza, con la creazione di ampi viali, inseriti tra le aiuole “all’italiana” e folti boschetti di alloro.
Due fontane gemelle sono poste in asse con gli ingressi (nella foto 17 quella situata dinanzi alla facciata posteriore e nella foto in alto sotto il titolo l’altra) e presentano una forma circolare con tazza emergente dal terreno ed ornata da una coppa centrale dalla quale si eleva uno zampillo d’acqua.
Un’altra bella fontana (nella foto 18) è addossata al muro di un piccolo edificio di pertinenza della villa ed è formata dall’assemblaggio di marmi antichi. La tazza è costituita da un sarcofago strigilato, di epoca romana, al di sopra del quale, su un piccolo pilastrino appoggiato al muro, è posta una testa colossale di Tritone marino, in marmo bianco lunense, dalla cui bocca fuoriesce l’acqua: la testa, di fattura romana, risale probabilmente al II secolo d.C. Notare, in alto sulla destra, un capitello corinzio con tre corone di foglie d’acanto scanalate, in uno stile largamente diffuso tra il I ed il II secolo d.C.
Quasi a ridosso delle Mura Aureliane, che delimitano a sud la Villa, è situata la Fontana di Venere (nella foto 19), in marmo bianco del II secolo d.C., posta entro una finta grotta realizzata con marmi di pietra lavica sporgenti, che sostiene con ambedue le mani una valva di conchiglia nella quale raccoglie l’acqua proveniente dalla parte alta esterna della grotta. Dalla conchiglia l’acqua ricade nella vasca semicircolare di raccolta. Lungo il vialetto che conduce alla fontana notare una colonnina di granito rosa, con base antica a doppio toro, sulla quale fu collocato un elegante capitello corinzio, non pertinente, con due corone di foglie d’acanto scanalate, molto simile ai capitelli posti sia sulla colonnina di granito posta nel piccolo slargo dei giardini, sia sul capitello situato presso il sarcofago strigilato, forse provenienti tutti dal medesimo complesso architettonico. Infine, quasi al centro dei giardini, si trova un’ampia vasca circolare in travertino con bordo arrotondato da cui si eleva un pilastrino rotondo, su cui è poggiata una tazza modanata dalla quale fuoriesce l’acqua.
La visita di Via della Lungara prosegue e, ad angolo con Via della Penitenza, troviamo la chiesa di S.Maria delle Scalette (nella foto 20), così denominata per le due rampe di scale che conducono all’ingresso della chiesa e dell’annesso monastero, che padre Domenico di Gesù e Maria fondò nel 1615 per le donne di malaffare che volevano redimersi (per questo motivo conosciuto come Monastero delle Pentite), con l’aiuto finanziario di Baldassarre Paluzzi Albertoni. La chiesa fu edificata a spese del duca di Baviera e del cardinale Antonio Barberini, fratello di Papa Urbano VIII nel 1619. A causa del monastero la chiesa si chiamò anche “S.Croce della Penitenza“, ma quando nel 1839 il complesso fu affidato alle Suore del Buon Pastore, sia la chiesa sia il monastero furono denominati “del Buon Pastore”.
L’Istituto, che si apre con un portale decorato a volute e mensola e sormontato dalla statua del Buon Pastore (nella foto 21), accolse anche ex recluse e bambine povere, qualificate come “condannate” e “preservate”; allora Pio IX fece ampliare l’edificio da Virginio Vespignani, che costruì una nuova ala su via della Penitenza, per garantire una separazione ben precisa tra le categorie di assistite. L’Istituto funzionò fino al 1950, quando il complesso fu adibito a carcere per le donne colpevoli di reati minori e come tale rimase fino al 1970, quando la casa di rieducazione fu chiusa ed il complesso fu adibito a pensionato per giovani e successivamente a centro di assistenza per anziani. Oggi vi è la sede della Casa Internazionale delle Donne.
Poco più avanti, ma sul lato opposto di Via della Lungara, sorge un’altra chiesa molto antica, risalente al IX secolo e denominata S.Giacomo alla Lungara (nella foto 22). La chiesa, chiamata anche “in Settignano” o “in Settimiano” (in relazione alla vicina porta Settimiana), nel 1198 era dipendente della basilica di S.Pietro e poi affidata ai Benedettini Silvestrini. Nel 1628 passò alle monache Penitenti, le quali, supportate economicamente dai Barberini, la ricostruirono nel 1644 su progetto di Luigi Arricucci, il quale trasformò l’edificio da originaria pianta basilicale a navata unica con soffitto a cassettoni. L’interno conserva la “Memoria funebre di Ippolito Merenda”, opera di Gian Lorenzo Bernini: una lapide a forma di lenzuolo spiegazzato sorretto con le mani e con i denti da uno scheletro alato.
Notevole il campanile romanico a monofore (nella foto 23), risalente al XIII secolo. In passato si considerava la torre campanaria un riadattamento di una preesistente torre, ma recenti analisi della struttura muraria sembrano scartare questa ipotesi. Il campanile, racchiuso fra edifici moderni e visibile dal Lungotevere Gianicolense, mostra i due lati dello spigolo nord, scanditi da due cornici di modiglioni marmorei a loro volta racchiusi fra due file di laterizi a denti di sega.
Su Via della Lungara, al civico 29, sorge anche l’antico Carcere di Regina Coeli (nella foto 24), originariamente monastero delle Carmelitane fondato nel 1654 da Anna Colonna, al quale era annesso la chiesa di “S.Maria Regina Coeli“, poi andata distrutta. Dopo il 1870 il monastero venne requisito dallo Stato Italiano e destinato a carcere: l’edificio fu ampliato ed adattato alla nuova destinazione grazie ai lavori diretti dall’ing. Carlo Morgini tra il 1881 ed il 1885.
Al civico 45 di Via della Lungara è situata un’altra chiesa, quella di S.Giuseppe alla Lungara (nella foto 25), costruita da Giuseppe Ludovico Rusconi Sassi nel 1732. La facciata della chiesa è a due ordini, quello inferiore diviso in tre parti da paraste con capitelli ionici, quello superiore con un grande occhio rotondo e timpano curvilineo. L’interno, a pianta ottagonale con volta rifatta nell’Ottocento al posto di quella settecentesca crollata, presenta un bel dipinto di Mariano Rossi, “Il sogno di S.Giuseppe“, situato presso l’altare maggiore. Sulle pareti laterali del piccolo presbiterio si trovano due dipinti ad olio su tela entro semplici cornici marmoree, anch’essi attribuiti a Mariano Rossi: quello di sinistra rappresenta “L’Adorazione dei Magi” e quello di destra “La strage degli Innocenti“. La sacrestia conserva un busto marmoreo di Clemente XI e nel soffitto un dipinto raffigurante “Il Trionfo della Chiesa”, sempre del Rossi.
Annesso alla chiesa si trova il convento dei Padri Pii Operai (nella foto 26), eretto da Giovanni Francesco Fiori nel 1764, come recita la lapide apposta tra il portale ed il finestrone sovrastante: “D. O. M. DOMUM HANC PIORUM OPERARIORUM CLEMENTIS PP XIII PIETAS A FUNDAMENTIS EREXIT ANNO MDCCLXIV”, ovvero “A Dio Ottimo Massimo – La devozione di papa Clemente XIII fece erigere dalle fondamenta questa casa dei Pii Operai nell’anno 1764”.
Al civico 82 di Via della Lungara sorge Palazzo Salviati (nella foto 27), eretto nella prima metà del Cinquecento per Orazio Farnese, che qui possedeva una vigna, ma nel 1552 venduto al cardinale Giovanni Salviati, figlio di Giacomo Salviati e Lucrezia de’ Medici, sorella di papa Leone X. Dopo pochi anni il palazzo passò al fratello di Giovanni, Bernardo Salviati, priore dell’Ordine di Malta, che nel 1560 fece ristrutturare l’edificio a Nanni di Baccio Bigio. Dopo vari passaggi (Borghese, Paccanari, Lavaggi) nel 1840 l’edificio fu acquistato dallo Stato Pontificio che vi ospitò l’Archivio Urbano e l’Orto Botanico. Divenuto proprietà della Stato Italiano, fu adibito a sede del Tribunale Militare, del Collegio Militare e dal 1971 del Centro Studi Militari. Il prospetto, suddiviso in cinque sezioni da bugnature verticali, apre al pianterreno con un grande portale sormontato da un balcone che poggia su grandi mensole. Ai lati, finestre inferriate ad arco bugnato con finestrelle sottostanti.
Sulla sinistra, ai nn. 81a e 81c, ingresso di servizio del palazzo, era l’ingresso dell’Orto Botanico (nella foto 28), come ricorda ancora l’epigrafe: “GREGORIUS XVI P.M. A MDCCCXXXVII BOTANICAE PROVEHENDAE,” ovvero “Gregorio XVI Pontefice Maximo nell’anno 1837 per il progresso della scienza botanica”. Il cortile è circondato al pianterreno da un loggiato aperto in portici, con pilastri decorati (quando il palazzo era Collegio Militare) ad opera di Annibale Bagnoli e vi sono rappresentate scene di battaglia risorgimentale ed armi dell’esercito.
Infine vogliamo ricordare che, nella zona dell’attuale Piazza della Rovere, esisteva un edificio che allora era situato tra Via della Lungara ed il Tevere: era il cosiddetto Ospedale dei Pazzerelli o Manicomio di S.Maria della Pietà (nell’immagine 29). Il 4 ottobre 1725, infatti, la Congregazione dei Pazzerelli ricevette l’ordine di lasciare l’ospizio di piazza Colonna alla Confraternita dei Bergamaschi e di trasferirsi presso via della Lungara nei locali attigui all’Ospedale S.Spirito. Benedetto XIII incaricò l’architetto Filippo Raguzzini di erigere il nuovo manicomio: i lavori, iniziati nel 1726, furono portati a termine nel 1729. Il trasferimento dei malati in questa sede non migliorò di certo la loro situazione: anche in questo ospedale esistevano i “camerini della paglia”, non più ampi di circa tre metri quadri, vere e proprie stalle in cui i degenti venivano spogliati ed abbandonati, con la paglia che veniva sostituita ogni mattina; esistevano gli anelli e le catene infissi al muro e venivano utilizzate le “bove”, speciali ceppi di legno a forma di giogo che immobilizzavano i piedi. I medici, generici e salariati, avevano accesso esclusivamente per somministrare purganti e salassi; soltanto nel 1758 fu assunto un medico per i 158 ricoverati. Durante il pontificato di Pio VI, tra il 1781 ed il 1782, venne realizzato un ampliamento dell’ospedale mediante acquisizioni di case su via della Lungara, per cui si resero necessarie anche opere di riadattamento dei locali. Il manicomio era suddiviso in due fabbricati distinti, uno per gli uomini ed uno per le donne, con un giardino adibito ad orto con una fontana centrale. La facciata si estendeva su via della Lungara per 114 metri, era separato dall’Ospedale S.Spirito dai lavatoi ed era costituito da un pianterreno e da due piani superiori. I ricoverati si trovavano a contatto con i passanti della via perché chiedevano l’elemosina attraverso le sbarre delle finestre del pianterreno. Nel 1862, grazie all’intervento finanziario di Pio IX, l’edificio fu profondamente ristrutturato dall’architetto Francesco Azzurri, ma pochi anni dopo la costruzione dei muraglioni del Tevere ne decretarono la fine: nel 1909 il manicomio venne demolito. Nello stesso anno, per iniziativa del senatore Alberto Cencelli, iniziarono i lavori per il nuovo ospedale psichiatrico progettato da Edgardo Negri ed Eugenio Chiesa sulla collina di Monte Mario: denominato Manicomio Provinciale di Santa Maria della Pietà, iniziò a funzionare il 28 luglio 1913 e fu inaugurato ufficialmente da Vittorio Emanuele III il 31 maggio 1914.