Anticamente Via della Dataria era chiamata “Strada o Salita di Montecavallo” perché conduce alla Piazza del Quirinale (un tempo appunto denominata “Monte Cavallo“) tramite una scalinata. La via fu aperta da Paolo V e terminata da Pio IX e prende il nome dal Palazzo della Dataria Apostolica (nella foto sotto il titolo), ovvero del Tribunale dei benefici, chiamato “della Dataria” per l’apposizione della data sui documenti (analogo al nostro Ufficio del Bollo). La struttura originaria dell’edificio risale alla fine del Cinquecento, proprietà del Cardinale Orazio Maffei, dopo la morte del quale, nel 1609, fu affittato alla Camera Apostolica per la famiglia pontificia e quindi, nel 1615, venduto per diventare la sede della Dataria Apostolica.
A questo scopo il palazzo fu ristrutturato per volere di Paolo V, come rivela lo stemma del Papa Borghese e l’iscrizione tuttora esistente sulla facciata dell’edificio (nella foto 1) che così recita: “PAULUS V PONT(IFEX) MAX(IMUS) DATARIAM APOSTOLICAM IN HIS AEDIBUS CURIALIUM COMMODITATI COLLOCAVIT ANNO MDCXV PONTIF(ICATUS) SUI XI”, ovvero “Paolo V Pontefice Maximo stabilì in questo edificio la Dataria Apostolica per la comodità dei membri della Curia nell’anno 1615, undicesimo del suo pontificato”.
Nel 1860 il palazzo fu riedificato per volontà di Pio IX da Andrea Busiri Vici, inglobando l’antico edificio ed una casa che si trovava sul retro: una lapide al di sopra del portone e lo stemma di Papa Mastai Ferretti (nella foto 2) ricordano proprio questi lavori. Il palazzo fu proprietà della Santa Sede anche dopo i Patti Lateranensi e fu venduto nel 1973 all’Ansa per 2.500.000 dollari. Da segnalare che fino alla fine dell’Ottocento il portone del palazzo serviva da passaggio pubblico per andare al vicino Vicolo Scanderbeg, mentre più anticamente si poteva camminare al coperto fino al portone del Palazzo del Quirinale che si affaccia su Via del Quirinale. Esiste un sonetto di Giuseppe Gioachino Belli che ci permette di analizzare molto bene questa strada cuperta: “Chi vvò vienì da le Cuattro-Funtane sempre ar cuperto ggiù a Ffuntan-de-Trevi, entri er porton der Papa, c’arimane incontr’a Ssan Carlino: poi se bbevi tutto er coritorone de sti grevi de papalini fijji de puttane: ggiri er cortile: poi se sscegni a li Bbrevi sin dove prima se fasceva er pane. Com’è arrivato a la Panettaria, trapassi l’arco, eppoi ricali abbasso e scappi dar porton de Dataria. E accusì er viaggio finirà a l’arbergo de li somari che stanno a l’ingrasso magnanno carta zifferata in gergo“. Il sonetto fu scritto nel 1832 e racconta che chi vuole andare dalle Quattro Fontane fino a Fontana di Trevi sempre al coperto, deve entrare nel portone del Papa, quello davanti alla chiesa di S.Carlino, percorrere il corridoio, girare il cortile e scendere fino ai Brevi (il Palazzo dei Brevi pontifici, ovvero gli atti pontifici che non avevano datazione solenne né bolla con piombo, come le Bolle, ma soltanto un sigillo); arrivati all’altezza di Via della Panetteria passare l’Arco della Dataria, ridiscendere ed uscire dal portone della Dataria.
Al civico 96 della via è situato il Palazzo della Panetteria (nella foto 3), cosiddetto perché nel cortile interno dell’edificio era situata la Panetteria Apostolica. Il palazzo, sorto come diramazione del Palazzo del Quirinale, al quale in sostanza si salda tramite il Torrione di Urbano VIII, fu costruito nel Seicento per volere di Paolo V affinché vi abitasse la Famiglia Pontificia, ovvero il gruppo di ecclesiastici e laici che curavano il servizio diretto al Papa.
Nel Settecento fu completamente ricostruito per volontà di Clemente XIII, come ricorda l’iscrizione (nella foto 4) posta sopra il bel portale architravato e ad arco, sovrastato dal massiccio stemma di Papa Clemente XIII Rezzonigo. L’iscrizione così recita: “CLEMENS XIII P(ONTIFEX) M(AXIMUS) PARTEM HANC AEDIUM FAMILIAE PONTIFICIAE SUBSTRUCTIONUM VITIO AC VETUSTATE CORRUPTAM A FUNDAMENTIS RESTITUIT AUXIT ANNO DOMINI MDCCLXVI PONTIFICATUS VIII” ovvero “Clemente XIII Pontefice Maximo restaurò dalle fondamenta ed ampliò questa parte dell’edificio della Famiglia Pontificia danneggiato per colpa delle fondamenta e dell’età nell’anno del Signore 1766, ottavo del suo pontificato”.
Il palazzo presenta una lunga facciata a tre piani con finestre riquadrate in marmo; il pianterreno alla sinistra del portale, per il dislivello del terreno, diviene un piano nobile, mentre la sopraelevazione risale al 1814.
Sul versante opposto di Via della Dataria, al civico 21, è situato il Palazzo di S.Felice (nella foto 5), costruito nel 1860 dall’architetto Filippo Martinucci sull’area dove prima sorgeva il Convento dei Cappuccini annesso alla chiesa di S.Bonaventura. La costruzione fu voluta da Pio IX in occasione della sistemazione della zona per i dipendenti del Palazzo del Quirinale, come ricorda l’iscrizione sulla facciata, e prese il nome da S.Felice da Cantalice che aveva vissuto nel Convento dei Cappuccini. L’iscrizione così recita: “PIUS IX PONTIFEX MAXIMUS SQUALENTIBUS AEDIBUS DISIECTIS AB INCHOATO EXCITAVIT AN(NO) MDCCCLXIV”, ovvero “Pio IX Pontefice Maximo abbattute le case fatiscenti innalzò dalle fondamenta nell’anno 1864”.
L’edificio presenta due piani con rivestimento di bugne lisce fino al primo ed un bellissimo portale centinato tra due colonne che sostengono un balcone del primo piano. Il suo grande cortile quadrato nasconde due tesori: una breve porzione della chiesa superiore di “S.Nicola de Portiis“, cosiddetta perché costruita, probabilmente dopo il XIV secolo, sopra quella più antica, risalente al IX secolo, ed i resti di un sepolcro romano, quello “dei Semproni“, scoperto nel 1863 e risalente alla metà del I secolo a.C. La facciata in blocchi di travertino, coronata in alto da un fregio con palmette in rilievo e da una cornice con ovuli e dentelli, presenta al centro una porta ad arco, sormontata da un’iscrizione che ne ricorda i proprietari: Gneo Sempronio, la sorella Sempronia e la madre Larcia. Un corridoio a volta lungo circa 3 metri, in blocchi di travertino, escluso l’ultimo filare che è in tufo, conduce alla cella funeraria (conservata solo in piccola parte), scavata nella roccia tufacea con pareti in opera laterizia, uno dei più antichi esempi conosciuti di questa tecnica. Il palazzo di S.Felice attualmente ospita uffici della Presidenza della Repubblica.
Al civico 22 di Via della Dataria è situato Palazzo Testa Piccolomini (nella foto 6), la struttura originaria del quale risale al Seicento e consisteva in un modesto edificio acquistato dai Testa Piccolomini, patrizi senesi stabilitisi a Roma nel XVII secolo ed imparentati con Pio II e Pio III, per farne la loro residenza di famiglia. Nel 1718 Giovanni Ferrante Testa Piccolomini lo fece completamente trasformare dall’architetto Filippo Barigioni e ne fece decorare gli interni. Il palazzo assunse così l’aspetto attuale, a tre piani e con un bel cantonale con parasta a tre fasce fino al possente cornicione mistilineo. Al pianterreno apre un bel portale a bugne con timpano spezzato tra finestrelle incorniciate. Nel 1846 l’ultimo dei Testa Piccolomini, Giuseppe, morì senza figli ed il palazzo passò a due nipoti della moglie, Elisabetta Maccarani, e cioè Giacinta Simonetti Brazzà e Laura Simonetti Theodoli. La proprietà rimase alla fine ai Theodoli che la vendettero alla famiglia Tittoni, i quali, nel 1968, la vendettero ad una società di costruzioni.
All’incrocio di Via della Dataria con Via di S.Vincenzo troviamo la “Madonnella della Natività” (nella foto 7). Si tratta di un affresco rettangolare settecentesco inserito in una composizione barocca in stucco con un baldacchino. Mentre sull’immagine lascia cadere i suoi raggi la colomba dello Spirito Santo, ai suoi lati sono situati quattro angioletti, di cui due inginocchiati, in atto di sorreggerla, sopra due mensole antiche di epoca romana. Le mensole sono in parte scheggiate ma si distingue ancora chiaramente l’ornato di mostri, cavalli marini e delfini. Al di sotto due testine di cherubini sono contornati da cumuli di nubi. L’illuminazione si affida a piccole lampadine fissate entro corolle di fronde intrecciate in ferro battuto. Il vetro di protezione non permette di distinguere bene lo stato di conservazione dell’immagine dipinta che sembra però quasi completamente cancellata.