Beatrice Cenci nacque a Roma il 6 febbraio 1577 da Ersilia Santacroce e dal conte Francesco Cenci e la sua storia è legata a gravi fatti di sangue che si svolsero tra il 1598 ed il 1599. La vicenda di Beatrice, accusata di parricidio e per questo motivo giustiziata sulla piazza di Ponte S.Angelo, fu narrata da scrittori, tra i quali Stendhal, storici ed artisti, come testimonia il celebre dipinto attribuito a Guido Reni o, forse, alla sua geniale allieva, Elisabetta Sirani. Per meglio comprendere gli avvenimenti occorre fare un passo indietro ed analizzare i luoghi, i personaggi e l’atmosfera nei quali la giovane nobildonna visse. I Cenci sono una nobile famiglia romana discendente dall’antica “gens Cincia”, ovvero da Lucio Cincio Alimento, storico e politico romano vissuto nel III secolo a.C., ma secondo alcuni discenderebbero da un Cencio del ramo dei Crescenzi, che ebbero alte cariche prefettizie nel Medioevo. Il padre di Beatrice, Francesco Cenci, fu l’ultimo esponente di una nobile e ricca casata romana, che si era conquistata ricchezza, onore e fama nel Medioevo e nel Rinascimento ed era diventata una delle più ricche ed influenti famiglie della Roma papalina. Francesco si sposò con Ersilia Santacroce dalla quale ebbe diversi figli: Antonina, Beatrice, Giacomo, Cristoforo, Rocco e Bernardo. Il conte fu uomo rissoso, violento e spesso in contrasto con la giustizia, tanto che durante il pontificato di papa Sisto V, per sfuggirne l’estremo rigore, si vide costretto a vivere nella Rocca di Petrella Salto. In questo periodo ed in questi luoghi si svolse uno dei primi fatti sanguinari di questa vicenda: Francesco Cenci, invaghitosi di una fanciulla del vicino paese di Vittiana, tal Annetta Riparella, la fece prima rapire e poi, visto il violento rifiuto della donna, uccidere dai suoi uomini. La fanciulla era però l’amante di un capo brigante del luogo, tal Marzio Catalano, il quale, venuto a conoscenza del misfatto e dell’autore, corse alla Rocca per vendicarsi, ma il conte Cenci, avvisato in tempo dal servitore Olimpio, si era già rifugiato a Napoli e poi a Roma. Francesco poté ritornare nella sua città perché nel frattempo papa Sisto V era morto e la tolleranza di sempre era tornata a regnare sovrana, seppur giustificata dal fatto che ben tre pontefici, Urbano VII, Gregorio XIV ed Innocenzo IX, regnarono nel giro di 2 anni. Nel 1592 salì al soglio pontificio Clemente VIII, un papa di indole pia, che di certo non costituiva un impedimento alla scelleratezza di Francesco Cenci. Questi trattava i figli molto severamente e li faceva vivere in uno stato di indigenza, facendogli mancare anche il necessario. La situazione cambiò quando Francesco Cenci si invaghì di una donna bellissima, Lucrezia Petroni, la quale però inizialmente non ricambiava l’affetto: pochi mesi dopo il Cenci spedì i tre figli maschi, Giacomo, Cristoforo e Rocco all’Università di Salamanca in Spagna e poi, forse non casualmente, subito dopo la moglie morì. Nel 1593 Francesco Cenci poté sposare Lucrezia Petroni ed organizzò le cose di palazzo affinché la sua famiglia non avesse alcuna comunicazione con l’esterno onde evitare che si venisse a conoscenza dei suoi misfatti. Antonina, però, informata ugualmente riguardo le strane circostanze nelle quali la madre morì, scrisse un memoriale al papa nel quale lo scongiurava di trovarle marito o di farla chiudere in convento. Clemente VIII, forse mosso a compassione, la fece maritare con Carlo Gabrielli, appartenente ad una delle più nobili famiglie di Gubbio, e costrinse il padre a darle una grossa dote. I tre figli maschi, nel frattempo, non ricevendo più alcun sostentamento dal padre, tornarono a Roma: Francesco considerò l’atto il massimo dell’insubordinazione e non solo rifiutò loro alcuna somma per gli alimenti ma non li volle più neanche a palazzo. Anche loro si rivolsero allora direttamente al pontefice per cercare una soluzione al problema e questi costrinse il padre ad assegnare loro una discreta somma affinché potessero almeno pagarsi un affitto. Nel 1598 Francesco fu arrestato in seguito ad un’accusa di abusi sessuali e fu costretto a pagare una forte ammenda per essere scarcerato e scagionato dalla terribile ed infamante imputazione. Due dei suoi figli, Rocco e Cristoforo, nel frattempo, vennero uccisi nel corso di violente liti, mentre Giacomo si sposò con una donna dalla quale ebbe anche figli. La bellezza e la grazia di Beatrice iniziarono a fiorire e l’attenzione del padre verso la figlia aumentò, generando così il più orrendo dei sentimenti. Francesco nascose la figlia agli occhi di tutti, sia per evitare che qualche pretendente la chiedesse in sposa, e quindi che fosse costretto a versare una cospicua dote, sia perché voleva le sue grazie tutte per sé. La matrigna Lucrezia, al fine di salvare la figliastra dal padre-mostro, introdusse in casa monsignor Guerra, un giovane avviato alla carriera ecclesiastica ed addetto alla Corte del papa, nella speranza di darla in sposa. Francesco, venuto a conoscenza del fatto, decise di partire in gran segreto per la Rocca di Petrella con Beatrice e Lucrezia, accompagnate dal servitore Marzio (ovvero lo stesso capo brigante al quale il Cenci aveva ucciso la fidanzata ed ancora in attesa di vendetta). L’altro servitore, Olimpio, fece in tempo ad avvertire monsignor Guerra ed il fratello di Beatrice, Giacomo, i quali lo incaricarono di assoldare sicari ed uccidere Francesco durante il viaggio ma questi giunse incolume al castello. Lucrezia e Beatrice furono così rinchiuse al secondo piano della lugubre Rocca e così vissero a lungo come recluse. Un primo tentativo di uccidere il rude signore fu effettuato da Marzio con un pugnale durante una delle visite che il padre effettuava presso la cella della figlia: ma il Cenci, uomo dedito a frequenti risse, da tempo portava sotto le vesti un giustacuore formato da una maglia durissima di acciaio e quindi sfuggì alla morte. Marzio fu costretto a fuggire e decise di tornare a Roma da monsignor Guerra: durante il tragitto incontrò Olimpio e i due, giunti dal Guerra, gli consegnarono alcune lettere disperate che Beatrice gli aveva scritte. Questi promise ai due servitori 2.000 zecchini se avessero assassinato il Cenci e così questi tornarono alla Rocca dove, grazie all’aiuto di Lucrezia, riuscirono ad introdursi. Francesco venne ucciso il 9 settembre 1598 durante il sonno da Olimpio e Marzio con due colpi di chiodo inferti col martello, uno in un occhio e l’altro alla gola, per evitare la maglia di acciaio; in seguito il corpo fu gettato dal torrione del castello su un albero sottostante e le ferite mascherate affinché sembrassero inferte dai rami. Così la famiglia Cenci rientrò a Roma, nel proprio palazzo, e pian piano Beatrice riacquistò i sensi e la salute, tanto che dopo poche settimane sembrò avesse già riacquistato la propria bellezza. La Regia Corte di Napoli, però, inviò alla Rocca di Petrella, per indagare sulla morte del Cenci, un Commissario, il quale fece riesumare il corpo. Le ferite inferte sul corpo non convinsero il Commissario ma, nonostante i dubbi, la Regia Corte non diede seguito alle indagini né richiamò da Roma la famiglia Cenci, alla quale comunque giunse notizia delle indagini. Giacomo Cenci inviò allora alcuni sicari per uccidere Olimpio e Marzio, ovvero coloro che avrebbero potuto incolpare la famiglia: il primo fu rintracciato ed ucciso, ma il secondo, arrestato dalla giustizia di Napoli per un altro omicidio, confessò l’efferato delitto di Francesco Cenci. La Corte Criminale di Napoli inviò così alla Giustizia di Roma la tremenda notizia e quindi la famiglia Cenci venne arrestata. Giacomo e Bernardo furono condotti alla Corte Savella, Lucrezia e Beatrice rimasero invece rinchiuse nel loro palazzo sotto controllo delle guardie. Monsignor Guerra invece non fu arrestato, o perché non menzionato da Marzio oppure in qualità di addetto al clero. Marzio fu condotto a Roma per testimoniare il misfatto e, insieme a Beatrice e Lucrezia, fu condotto a Corte Savella: questi probabilmente non si rese conto che le sue ammissioni avrebbero avuto gravissime conseguenze per la famiglia Cenci, e per Beatrice in particolare, cosicché, condotto dinanzi al giudice Ulisse Moscati, ritrattò la confessione. Neanche le durissime torture alle quali venne sottoposto riuscirono a distogliere la sua volontà di ritrattazione, tanto che alla fine vi morì. Non essendovi nel processo prove ed indizi del delitto, gli Auditori della Ruota Criminale decretarono una provvisoria reclusione degli indagati in Castel S.Angelo. Nel frattempo venne arrestato il sicario di Olimpio che confessò il delitto e nominò i mandanti. Monsignor Guerra, camuffatosi da carbonaio, riuscì a lasciare Roma ed a rifugiarsi in Francia; Giacomo, Bernardo e Lucrezia, invece, sottoposti alla tortura della corda, confessarono (certamente non per volontà propria) i delitti, accusando proprio Beatrice come la principale responsabile dell’omicidio di Francesco. Costei, invece, sopportò i tormenti della corda senza proferire parola né confessando nulla, tanto che il giudice Moscati vide in lei la chiarezza e la forza dell’innocenza ed a tal proposito fece un rapporto al papa. Clemente VIII non fu di questa opinione ed infatti incaricò il giudice Cesare Luciani, già noto per la sua severità ai tempi di Sisto V, di proseguire gli interrogatori. Beatrice, condotta dinanzi al nuovo giudice, fu accusata di essere non soltanto una complice ma la vera mandante del delitto e di fronte a tali accuse rispose: “Taccia di grazia dal dire tante iniquità; io non conosco veruna di queste circostanze e di questi fatti…”. Terribili le torture alle quali Beatrice fu sottoposta per giorni ma nessuna di esse fu tale da farle confessare il delitto, finché non furono condotti dinanzi a lei i suoi accusatori, ovvero i fratelli Giacomo e Bernardo e la matrigna Lucrezia. La confessione alfine avvenne, non per paura delle torture ma per la pietà verso i fratelli: Beatrice e Lucrezia furono lasciate nelle celle della Corte Savella, mentre Giacomo e Bernardo furono condotti nel carcere di Tor di Nona.
Clemente VIII odiava i Cenci e non gli parve vero di poterli finalmente distruggere ed impadronirsi dei loro averi: così privò tutti i membri delle famiglia del titolo, confiscò i loro beni, compresi i gioielli ed il quadro raffigurante “Beatrice Cenci” (nella foto 1), attribuito a Guido Reni o. forse, alla sua geniale allieva, Elisabetta Sirani, e vendette il tutto alla famiglia Borghese. Il pontefice inizialmente ordinò che fossero tutti squartati, senza neanche un processo, ma poi, condotto a più miti consigli, ordinò che questo fosse effettuato. Nonostante l’avvocato difensore Prospero Farinacci, al fine di alleggerire la posizione di Beatrice, accusò Francesco Cenci di stupro nei confronti di Beatrice, i Cenci furono giudicati colpevoli e condannati: alla decapitazione Beatrice e Lucrezia, allo squartamento Giacomo: soltanto Bernardo, per la sua giovane età, ebbe salva la vita, anche se fu costretto ad assistere alla condanna. L’11 settembre 1599 il corteo con Beatrice, Giacomo, Bernardo e Lucrezia sfilò lungo le strade di Roma tra ali di folla: un fatto singolare avvenne in via Giulia quando si sparse la voce che Beatrice fosse stata graziata dal papa, tanto che la giovinetta venne prelevata da alcuni giovani, prontamente bloccati da soldati a cavallo. Il primo ad essere condotto sul palco fu Bernardo, ignaro del suo destino e convinto fino all’ultimo momento di essere giustiziato anch’egli: dopo essere svenuto, fu fatto sedere dinanzi alla mannaia. La prima ad essere giustiziata fu Lucrezia Petroni: un colpo di spada le tagliò la testa. Una sommossa popolare fece seguito alla prima esecuzione e la polizia faticò non poco per far tornare la calma. Fu così il turno di Beatrice la quale, al carnefice che le si fece incontro, disse: “Lega questo corpo ma spicciati a sciogliere quest’anima che deve giungere all’immortalità ed alla eterna gloria”. Un profondo silenzio accolse la giovane sul palco, che lentissimamente si avvicinò al ceppo, da sola vi collocò la testa e da sola si tolse il velo dal collo, attendendo il colpo fatale, invocando ad alta voce “Gesù e Maria”. Anche per lei giunse implacabile il colpo di spada. Giacomo fu poi mazzolato, scannato e squartato. Il corpo di Beatrice Cenci fu raccolto dai confratelli della Compagnia della Misericordia e, insieme ad una folla commossa, venne portata in processione fino alla chiesa di S.Pietro in Montorio, dove fu seppellita sotto l’altare maggiore, tutta ornata di rose, con il capo poggiato su un piatto d’argento, come omaggio ad una vittima della sopraffazione dei potenti. Curioso osservare come i due boia che eseguirono le condanne di Beatrice e Giacomo Cenci e di Lucrezia Petroni, ovvero Mastro Alessandro Bracca e Mastro Peppe, conclusero tragicamente i loro giorni: il primo morì 13 giorni dopo il supplizio dei Cenci, oppresso da incubi notturni per il rimorso di avere inflitto i feroci tormenti ai condannati, mentre il secondo morì accoltellato un mese dopo a Porta Castello, non lontano dal luogo dell’esecuzione. Fino al settembre 1789 la testa di Beatrice rimase nella teca, ovvero fino a quando, durante la Prima Repubblica Romana, i soldati francesi che avevano occupato Roma si abbandonarono a razzie e vandalismi: secondo la testimonianza del pittore Vincenzo Camuccini che assistette all’episodio mentre restaurava la “Trasfigurazione” di Raffaello, uno di questi soldati, tal Jean Maccuse, profanò la teca e, dopo essersi divertito a prendere a calci il teschio di una delle donne più belle e sfortunate di Roma, andò via con il misero resto in tasca. Il francese, colpito da una terribile maledizione, da quel momento in poi non ebbe più pace: si narra che, scherzo del destino, alla fine la sua testa andò ad ornare la teca di un sultano in Africa. Questo è il triste epilogo della storia di Beatrice Cenci, martire inconsapevole di una giustizia spettacolare in un’epoca crudele e violenta. Molte sono le leggende che aleggiano intorno alla crudele e prematura fine di Beatrice: la più famosa è quella nella quale si narra che il suo fantasma appaia la sera dell’11 settembre di ogni anno sugli spalti della Rocca di Petrella Salto e sugli spalti di Castel S.Angelo.
Un’ultima notizia: durante i lavori di scavo eseguiti nell’ultimo decennio dell’Ottocento per l’incanalamento del Tevere, nel punto in cui si ergeva il palco delle esecuzioni capitali e da cui si accedeva ai magazzini che custodivano gli “attrezzi” del mestiere del boia, fu rinvenuta nel greto del fiume una “spada di giustizia” (nella foto 2) risalente al XVI secolo. Quasi sicuramente si tratta della spada con cui si eseguivano le decapitazioni e probabilmente è la stessa con cui furono decapitate Beatrice Cenci e Lucrezia Petroni. La lama della spada è lunga 101 cm e larga 5 nella sommità e 7 verso la base, mentre l’impugnatura è in legno e misura 39 cm.