Gaio Giulio Cesare, il più grande conquistatore di Roma Antica, apparteneva alla più nota e storica famiglia romana, la “gens Iulia“, che vantava di discendere nientedimeno che da Ascanio, figlio di Enea, e da Romolo, il primo re di Roma. Il ramo della “gens Iulia” che portava il “cognomen” Cesare, inoltre, discendeva da un antenato venuto al mondo non tramite la via naturale ma attraverso il lungo taglio trasversale attuato sul ventre materno: la parola latina che identifica l’operazione del taglio cesareo è appunto “caeso”, ovvero taglio. Giulio Cesare nacque in una modesta casa della Subura il 100 o il 101 a.C. da Gaio Giulio senior, che morì d’infarto nell’85 a.C., e da Aurelia. L’evento che segnò ed agevolò la sua carriera fu il matrimonio di sua zia Giulia, sorella del padre, con Gaio Mario, futuro console della Repubblica Romana. Il primo matrimonio di Gaio Giulio Cesare avvenne nell’86 a.C. con Cossutia, che suo padre, prima di morire, aveva sapientemente combinato con una donna “familia equestri sed admodum dives“, di famiglia borghese, diremmo oggi, ovvero non nobile, ma piuttosto ricca. Il matrimonio durò poco, forse perché Cesare, di gusti molto esigenti, non ritenne la donna sufficientemente gradevole, o forse perché si era innamorato di Cornelia, figlia di Lucio Cornelio Cinna, capo del Governo di Roma. La forte influenza di suo zio Gaio Mario indussero il collega console Cinna ad offrire a Cesare, nell’83 a.C., la propria figlia Cornelia in moglie, oltre ad un posto da dirigente politico nel movimento “populares” romano. La doppia alleanza con Cinna e Mario, nonché il rapporto di parentela con quest’ultimo, causarono notevoli problemi a Cesare negli anni di dittatura di Silla. La situazione peggiorò quando il dittatore, al rientro in Italia dopo la vittoria contro Mitridate VI, sconfisse i seguaci di Mario nella battaglia di porta Collina nell’82 a.C. e, autoproclamatosi dittatore perpetuo per la riforma delle leggi e la restaurazione della repubblica, iniziò ad eliminare gli avversari politici. Silla ordinò a Cesare di divorziare dalla figlia del suo acerrimo nemico Cinna, ma, ricevuto un netto rifiuto, considerò di farlo uccidere: Cesare fu salvato da suo zio Aurelio Cotta (fratello della madre), fervente sillano, ma fu costretto a lasciare Roma ed a trasferirsi nell’antica provincia romana d’Asia presso il pretore Minucio Termo. Il primo incarico che Termo affidò al diciottenne romano fu di chiedere una squadra navale a Nicomede, re di Bitinia, compito che ottenne facilmente, si racconta, grazie ai gusti omosessuali del re, ai quali Cesare, pur di adempiere all’incarico, si concesse. Quando nel 78 a.C. Silla morì, Gaio Giulio Cesare si imbarcò e fece ritorno immediatamente a Roma. Qui iniziò a dedicarsi alla carriera politica come esponente dei “populares” ed a quella forense come pubblico accusatore: i bersagli individuati furono Gneo Cornelio Dolabella ed Antonio Ibrida, sillani che erano stati governatori in Macedonia ed in Grecia. Seppure non riuscì a farli condannare, i suoi discorsi furono ritenuti di ottima fattura. Forse per evitare le vendette della nobiltà romana, forse per completare gli anni di servizio nell’esercito, nel 74 a.C. Cesare si imbarcò per Rodi per apprendere la cultura e la filosofia greca, ma presso l’isola di Farmacussa (oggi Farmaconisi) venne rapito dai pirati. In questa circostanza Cesare dimostrò, forse per la prima volta, tutto il suo cinismo e la sua determinazione: i pirati chiesero 20 talenti per la sua liberazione, ma Cesare, forte della sua posizione di cittadino romano, promise che ne avrebbe consegnati 50 ma che, dopo essere tornato libero, li avrebbe fatti uccidere tutti. Così fece: dopo che i suoi compagni tornarono con i soldi che le città costiere avevano offerto per il suo riscatto, chiese ed ottenne dalla città di Mileto i battelli da guerra con i quali inseguì ed uccise i pirati. Nel 73 a.C., mentre era ancora in Asia, a Roma fu eletto membro nel collegio dei 15 pontefici al posto dello zio Aurelio Cotta. Al suo ritorno, nel 72 a.C., fu eletto tribuno militare risultando primo per numero di voti, segno che ormai la plebe di Roma aveva individuato in Cesare il suo rappresentante nelle istituzioni repubblicane e riposto in lui la speranza di vedere ripristinato l’antico potere che Silla aveva tolto ai tribuni della plebe. Nel 70 a.C. Cesare fu eletto questore con destinazione Spagna Ulteriore, governata dal propretore Antistio Vetere. Forte della sua nuova veste politica, nel 69 a.C. pronunciò dai Rostri nel Foro gli elogi funebri di sua zia Giulia, moglie di Mario, e di sua moglie Cornelia, figlia di Cinna, morte pochi mesi prima, a breve distanza l’una dall’altra.
Il discorso, oltre a ricordare i due grandi leader “populares“, evidenziò la discendenza regale e divina di sua zia Giulia (di conseguenza anche di sè stesso) come appartenente alla “gens Iulia” (nella foto 1 “Busto di Giulio Cesare”, del I secolo d.C.). Nel 68 a.C. Cesare sposò Pompea, nipote di Silla, ma nel 62 a.C. la ripudiò dopo che Publio Clodio Pulcro, amante di Pompea, fu scoperto all’interno della sua casa travestito da donna. Nel 65 a.C. Gaio Giulio Cesare fu eletto “aedilis curulis” (ovvero edile curule, un magistrato al quale veniva assegnata la sella curule, un sedile pieghevole a forma di X simbolo del potere giudiziario), una carica alla quale, nel tempo, erano state affidate diverse funzioni: la sorveglianza degli edifici pubblici, la sicurezza nelle strade, l’igiene pubblica, ma in questo periodo la funzione che qualificava i titolari dell’edilità era la “cura ludorum“, ovvero l’organizzazione degli spettacoli con i quali soddisfare e divertire il pubblico. Cesare organizzò i giochi in memoria di suo padre, utilizzando oltre 320 coppie di gladiatori. L’anno dell’elezione a Pontefice Massimo (63 a.C.) fu cruciale per la carriera di Cesare: durante l’estate vinse anche l’elezione alla pretura per l’anno successivo e verso la fine dell’anno recitò una parte di primo piano durante la sessione che si tenne in Senato per la seconda congiura di Catilina. Costui era un nobile decaduto che tentò più volte di impadronirsi del potere per cancellare gli enormi debiti economici accumulati nel tempo: organizzò una prima congiura nel 66 a.C., alla quale partecipò molto probabilmente anche Cesare. La congiura, che avrebbe portato all’elezione di Crasso come dittatore e di Cesare come suo “magister equitum“, fallì proprio per volontà di Crasso o dello stesso Cesare. Nel 63 a.C. vi fu una seconda congiura, questa volta sventata da Marco Tullio Cicerone. Ma in questo periodo Cesare, dopo avere ottenuto le due importanti cariche di Pontefice Massimo e di pretore, era entrato nel mondo dei politici che contavano e non aveva quindi più bisogno di grandi sovvertimenti. Moralmente compromesso nella cospirazione di Catilina, seppe tuttavia estraniarsene in tempo, adoperandosi invano a salvare i congiurati dalla morte. Dopo aver governato la Spagna Ulteriore con abilità, pur traendone allo stesso tempo larghi profitti, nel 60 a.C. Cesare si accordò in quello che fu chiamato il Primo Triumvirato con Pompeo e Crasso per l’esercizio in comune della supremazia politica. Il triumvirato aiutò Cesare a raggiungere la sua più grande ambizione, ovvero quella di divenire console, la massima carica di Roma. La formazione del triumvirato con uomini potenti ed influenti quali erano Crasso e Pompeo consentì a Gaio Giulio Cesare di far passare provvedimenti concreti ed innovativi di fronte ad un Senato ostile e sospettoso delle sue motivazioni e far sì che, dopo il suo mandato, ci fosse una continuità progressista della successiva legislazione. Le sue leggi furono viste come semplici misure populiste, come quelle agrarie a beneficio della plebe e dei veterani di Pompeo. A rinsaldare ulteriormente il legame tra Cesare ed il grande generale Pompeo vi fu il matrimonio tra quest’ultimo e Giulia, la figlia di Cesare e di Cornelia. Nel frattempo Cesare si era assicurato con la “Lex Vatinia” una carica futura, al termine del consolato, ovvero il proconsolato delle province della Gallia Cisalpina, dell’Illirico e, a causa della morte improvvisa di quel governatore, anche della Gallia Transalpina, per un periodo di cinque anni. Forse Cesare comprese le grandi potenzialità che questo incarico avrebbe potuto fornirgli, ovvero conquistare immensi bottini di guerra ed acquisire il prestigio necessario per le riforme di cui Roma aveva bisogno, tanto che riuscì ad ottenere ben 4 legioni (la VII, l’VIII, la IX e la X). Prima di lasciare la città, nel 58 a.C., Cesare predispose una serie di misure con le quali proteggersi le spalle: con l’aiuto di Publio Clodio Pulcro, tribuno delle plebe, fece esiliare Cicerone, inviò Marco Porcio Catone come propretore a Cipro e, per sicurezza, si appellò alla “Lex Memmia“, grazie alla quale nessun uomo che si trovava fuori dall’Italia poteva essere sottoposto a processo giuridico. Per la fine del suo mandato, nel 58 a.C. Cesare fece eleggere come suoi successori Gabinio e Pisone, del quale sposò anche, nel 59 a.C., la figlia Calpurnia. In otto anni di dura guerra (58-51 a.C.), con una triplice campagna, contro gli Elvezi, i Belgi e gli Aquitani, Gaio Giulio Cesare conquistò tutta la Gallia, assicurandola al dominio romano. Per consolidare l’autorità di Roma, nel 55 a.C. combatté vittoriosamente contro le popolazioni germaniche stanziate al di là del Reno (costruendo in gran fretta un ponte di legno sul Reno) e fece due spedizioni in Britannia, nel 55 e nel 54 a.C., dove riportò facili vittorie, sconfiggendo Cassivellauno, con il quale avviò poi trattative di pace che prevedevano per Roma tributi annuali ed ostaggi. Nel frattempo, nel 56 a.C., a Lucca si radunarono i triumviri, Pompeo e Crasso provenienti da Roma e Cesare dalla Gallia, per concordare il seguito del loro programma di governo e rinnovare l’alleanza: Cesare ottenne il proconsolato della Gallia per altri cinque anni, Pompeo il governo della Spagna, Crasso quello della Siria. Nel 53 a.C. Cesare, ritornato in Gallia, dovette rispondere all’ennesima ribellione degli Eburoni, dei Menapi e dei Treviri, ai quali inflisse una dura sconfitta. Inoltre decise di passare di nuovo il Reno, costruendovi un nuovo ponte, per punire i Germani che avevano appoggiato la ribellione gallica: forse, resosi conto della pericolosità dell’azione, tornò indietro, lasciando parzialmente in piedi il ponte, come monito della potenza romana.
Ultimo atto della guerra d’oltralpe fu la ribellione dei Galli, i quali, superate finalmente le divisioni interne, si erano uniti contro i Romani sotto la guida di Vercingetorige, capo degli Arverni (nell’immagine 2, “Vercingetorige getta le armi ai piedi di Cesare”, Lionel Noel Royer-1899). Con la battaglia di Alesia (52 a.C.) Cesare, debellata la rivolta, poté considerare conclusa la grande impresa che, mentre dava una nuova e vasta provincia al dominio romano, assicurava la sua personale ascesa politica. Tutti questi successi, per quanto apportatori di immense ricchezze e territori, a Roma furono sentiti come minaccia alla libertà repubblicana: lo stesso Pompeo si allineò dalla parte dell’oligarchia senatoria. La rottura avvenne nel 49 a.C. quando si pretese da Cesare, quale condizione per porre la candidatura al secondo consolato promessogli, la presenza a Roma come privato cittadino. Il conquistatore delle Gallie, intuendo il pericolo di trovarsi alla mercé degli avversari, varcò invece in armi il Rubicone che segnava a nord il limite dell’Italia entro il quale non potevano sostare magistrati investiti di “imperium” provinciale, pronunciando la storica frase “Alea iacta est“, ovvero “Il dado è tratto”. Fu questo l’inizio della guerra civile che durò quattro anni. Preso alla sprovvista, Pompeo si rifugiò prima in Puglia e poi, inseguito da Cesare, fuggì in Grecia per raccogliervi un esercito. Cesare decise di rientrare prima a Roma, dove si impossessò delle ricchezze dell’erario, e poi si diresse contro la Spagna, che gli accordi di Lucca avevano assegnato a Pompeo, dove sconfisse i tre legati di Pompeo. Rientrato a Roma, assunta per pochi giorni la dittatura ed ottenuta l’elezione al consolato per il 48 a.C., Cesare decise di attaccare Pompeo e così si imbarcò da Brindisi insieme al suo luogotenente Marco Antonio. Il primo scontro si ebbe a Durazzo, dove Cesare fu sconfitto, ma poi, in un grande scontro in campo aperto presso Farsalo, fu Pompeo ad essere sconfitto: costui fuggì in Egitto, presso il faraone Tolomeo XIII, per ordine del quale, però, fu ucciso. Cesare si recò allora in Egitto per punire gli uccisori di Pompeo (comunque cittadino romano e quindi intoccabile) e poi si inserì nella lotta dinastica tra Tolomeo XIII e sua sorella Cleopatra VII, riconoscendo quest’ultima come sovrana.
Tra Cesare e Cleopatra si instaurò una relazione amorosa dalla quale nacque Tolomeo XV, meglio noto come Cesarione (nell’immagine 3, “Cleopatra e Cesare”, Jean Léon Gérôme-1866). Ripreso l’inseguimento e la guerra contro i pompeiani, Cesare si recò in Siria per combattere contro Farnace, alleato di Pompeo e reo di avere ucciso le scarse guarnigioni romane: nel 47 a.C. lo sconfisse a Zela (da qui il famoso messaggio al Senato “Veni Vidi Vici”). Sconfisse successivamente gli ultimi seguaci di Pompeo in Africa a Tapso (46 a.C.) e in Spagna a Munda (45 a.C.), vittoria questa che sancì definitivamente la sconfitta dei pompeiani e la fine della guerra civile. Nel frattempo, tra agosto e settembre del 46 a.C., Cesare celebrò trionfalmente i suoi trionfi percorrendo la via Sacra ben quattro volte, quante furono le vittoriose campagne militari: quella in Gallia, in Egitto, in Siria ed in Africa. Inoltre offrì ai romani sia i divertimenti, con rappresentazioni teatrali, giochi e lotte tra gladiatori, sia quelle somme di denaro che aveva promesso da tempo: oramai il popolo di Roma era tutto dalla parte di Cesare, padrone incontestato di Roma e del mondo mediterraneo. La dittatura, che nel 46 a.C. gli era stata concessa per dieci anni, gli venne ora data a vita, ricevette la “tribunicia potestas” che rendeva inviolabile la sua persona, come “imperator” disponeva di tutte le forze militari. Questa somma di poteri e prerogative, che il Senato, ormai del tutto prono, ingrandì con speciali leggi, consentì a Cesare di legiferare liberamente promuovendo nel giro di pochi mesi una serie di riforme: allargò i quadri del Senato, aumentò il numero dei magistrati, riformò il calendario, riorganizzò, con la “Lex Iulia Municipalis“, i municipi e le colonie, fondò, tra tante altre colonie a favore dei suoi veterani, quelle di Cartagine e Corinto (le città distrutte dai Romani nel 146 a.C.), difese i provinciali dagli abusi dei pubblicani, contenne gli eccessi del capitale fondiario e mobiliare, stabilì un imponibile di mano d’opera libera nelle grandi aziende agricole. Notevole fu anche il suo programma relativo alla costruzione di opere pubbliche, come il nuovo Foro di Cesare, opera realizzata con il bottino ricavato durante la guerra in Gallia: soltanto l’acquisto dei terreni necessari comportò la spesa di ben cento milioni di sesterzi. Promosse anche la costruzione di una nuova curia, la “Curia Iulia“, in sostituzione della “Curia Hostilia” distrutta nel 52 a.C. da un incendio. Cesare iniziò, ma non vide terminate, altre due grandi opere: la basilica Giulia ed il Teatro di Marcello. La sua mira era quella di creare una grande unione politica della quale la sua persona fosse al centro, e perciò perdonò con magnanimità i suoi avversari, o addirittura li fece oggetto di benefici. Si convinse anche che lo Stato dovesse essere modificato nelle sue strutture, con al vertice una nuova figura politica cui occorreva un fondamento di continuità, e perciò adottò il nipote Ottavio, il futuro Augusto, che mandò ad Apollonia, in Grecia, dove stava preparando la grande spedizione di rivincita contro i Parti, dalla quale, si diceva, sarebbe rientrato con l’aureola regale. Queste innovazioni crearono disagio e timore negli esponenti dell’aristocrazia senatoria più legati alle antiche concezioni della libertà repubblicana. Anche le insegne esteriori di cui Cesare si circondò accentuarono l’avversione al suo regime personale e provocarono il formarsi di una congiura per la sua soppressione, congiura nella quale, accanto a nobili intenti, giocarono anche rivalità personali. Cesare aveva infatti nominato consoli nel 44 a.C. sé stesso ed il fidato Marco Antonio, mentre attribuì la pretura a Marco Giunio Bruto e Gaio Cassio Longino: fu proprio quest’ultimo, forse deluso dal non essere stato nominato console, a farsi interprete dell’insofferenza di un’ampia parte della “nobilitas” ed iniziò una congiura anticesariana, trovando l’appoggio di alcuni ex pompeiani. Il 15 marzo del 44 a.C. (Idi di marzo), mentre si recava alla Curia di Pompeo per una seduta in Senato, Cesare fu colpito dai congiurati con 23 pugnalate, di cui una sola mortale, cadendo riverso ai piedi della statua di Pompeo e pronunciando le famose parole “Tu quoque, Brute, fili mi!“, ovvero “Anche tu, Bruto, figlio mio!”. La figura di Cesare va giudicata come una tra le più geniali e prestigiose dell’antica Roma, così significativa che il suo cognome divenne titolo distintivo degli imperatori romani, sopravvivendo, come sinonimo di sovrano, fino ai tempi moderni in termini come “Kaiser” e “Zar”. Il lato più impressionante e sconcertante del suo carattere fu la sfrenata libertà con cui si mosse pur di raggiungere i suoi obiettivi, quali che fossero. Niente e nessuno riuscì a farlo esitare o fermare, né la tradizione dello Stato romano, né la strage di milioni di Galli pur di arricchirsi e guadagnarsi la fama di grande soldato, né lo scrupolo di una guerra civile pur di non farsi processare e rischiare di perdere prestigio ed autorità. Contemporaneamente non mancò di coraggio nel prendere decisioni che, seppure rischiose, in caso di successo lo avessero ripagato con riscontri straordinariamente utili. Cesare fu il più grande genio militare della storia romana per la capacità che ebbe di instaurare un rapporto tale di stima, devozione e disciplina con i suoi legionari che questi lo avrebbero seguito ciecamente fino alla morte. La guerra civile, per esempio, non la vinse il suo genio di comandante bensì la devozione assoluta dei suoi legionari. Non possiamo dimenticare che, oltre ad essere un grande generale e condottiero, Gaio Giulio Cesare fu anche uno tra i massimi scrittori della latinità: le sue opere letterarie sulla guerra in Gallia (“De bello gallico”) e sulla guerra civile contro Pompeo ed il Senato (“De bello civili“) lo pongono infatti tra i più grandi maestri di stile della prosa latina. Insomma, la sua personalità, la sua irruenza, il suo genio ebbero la forza di cambiare il corso della storia di Roma, che dopo di lui non fu più la stessa.