La Via Appia Antica, la meglio conservata delle grandi vie romane, fu aperta nel 312 dal censore Appio Claudio Cieco. Per la prima volta una grande strada prese il nome non già dalla sua funzione (la “via Salaria” come “via del sale”) o dal luogo ove era diretta (la “via Ostiense“) ma dalla persona che l’aveva costruita. La via, denominata “regina viarum“, ossia la “regina delle strade”, all’inizio terminava a Capua, poi nel 268 a.C. venne prolungata fino a Benevento ed infine (prima del 191 a.C.) fino a Brindisi, divenendo così il principale sbocco di Roma per i suoi traffici con l’Oriente. L’Appia Antica ha una posizione particolare: passa in alto nella Campagna Romana e non in un fondovalle come, ad esempio, la via Appia Nuova e come in genere fanno tutte le grandi vie di comunicazione. La via usa come tracciato la colata di Capo di Bove, una colata di lava di 270 mila anni fa che veniva dal Vulcano Laziale (i Colli Albani) e che, fluendo all’interno di un valloncello, è arrivata fino a dove oggi c’è la tomba di Cecilia Metella. Millenni dopo le colline laterali, tra le quali la lava era fluita, franarono perché composte di terra e divennero vallette (come quella dove oggi passa la via Appia Nuova). Invece la colata di lava (che è leucitite, una selce durissima che fu usata per pavimentare la strada romana) divenne la dorsale di una collina quasi rettilinea, che arriva dai Colli Albani fino a Roma. Allora Appio Claudio sfruttò proprio la sommità di questa dorsale per tracciare la via Appia, formidabile, nei secoli scorsi, anche per il panorama che dava sui due versanti. Quasi certamente il primo tratto ricalcava il tracciato di una via antichissima che, partendo dall’Isola Tiberina e attraversando la valle del Circo Massimo, congiungeva Roma ad Albalonga ed agli altri centri dei Colli Albani. L’obiettivo era avere una strada nuova e più grande per Capua, la grande alleata di Roma in una sorta di stato federale romano-campano, entrato inevitabilmente in collisione con la federazione sannitica. Per arrivare in Campania esisteva già una strada, la “via Latina“: questa via percorreva la valle del Sacco collegando Valmontone, Artena, Colleferro, Anagni, Frosinone, Cassino in un percorso a zig-zag di origine spontanea ma molto lungo e tortuoso e non omogeneo; inoltre attraversava una zona pericolosa visto che le montagne erano dei Sanniti. Appio Claudio volle quindi una nuova strada che costeggiasse il versante marittimo, quindi al di qua delle montagne dei Colli Albani, dei Lepini, degli Ausoni e degli Aurunci, più rapida e sicura della “via Latina” ed arretrata rispetto al fronte di guerra. La via Appia nacque dunque come via militare e strategica, la cui realizzazione richiese due anni di lavoro, un onere ingente ed un grosso impegno tecnico per superare notevoli difficoltà naturali.
Purtroppo non si conoscono i dettagli della realizzazione della strada, nemmeno se all’inizio fosse pavimentata (ma non sembra) o soltanto battuta. Di pavimentazione, con i lastroni di pietra, se ne parlò per la prima volta nel 296 a.C. Nei tempi antichi ben due magistrati si occuparono espressamente della via e perfino Giulio Cesare fu “curator Appiae“. Quasi subito lungo la via cominciarono ad essere costruite le prime tombe: inizialmente a camera come quella degli Scipioni, poi le altre dei Servilii o dei Metelli. Dalla fine del II secolo a.C., con il diffondersi dell’uso del monumento funerario isolato, la via assunse a poco a poco l’aspetto che in gran parte ancora conserva: una doppia linea quasi ininterrotta di sepolcri di varie forme, un alternarsi di tombe di famiglia e di sepolture collettive note come colombari. La tradizione fu proseguita anche dai cristiani che qui aprirono le più importanti catacombe.
La Via Appia Antica aveva inizio a “porta Capena“, presso il Circo Massimo, mentre oggi ha inizio da porta S.Sebastiano, ad un centinaio di metri dalla quale è posta la copia della prima colonna miliaria della strada (nella foto 1), in effetti posta a 1.478 metri da “porta Capena” (l’originale, nella foto 2, si trova sulla scalinata presso S.Maria in Aracoeli). La colonna reca le seguenti iscrizioni: “IMP(ERATOR) CAESAR VESPASIANUS AUG(USTUS) PONTIF(EX) MAXIM(US) TRIB(UNICIA) POTESTAT(E) VII IMP(ERATOR) XVII P(ATER) P(ATRIAE) CENSOR CO(N)S(UL) DESIGN(ATUS) VIII, ovvero “L’imperatore Cesare Vespasiano Augusto, Pontefice Maximo, nominato della settima potestà tribunicia, imperatore per la diciassettesima volta, padre della patria, censore, console per l’ottava volta (fece)”, e “IMP(ERATOR) NERVA CAE(SAR) AUGUSTUS PONTIFEX MAXIMUS TRIBUNICIA POTESTATE CO(N)S(ULE) III PAT(ER) PATRIAE RIFECIT, ovvero “L’imperatore Cesare Nerva Augusto, Pontefice Maximo, (nominato) della potestà tribunicia, console per tre volte, padre della patria restaurò”. Inoltre, la colonna originale riporta anche un’altra lapide che così recita: “S.P.Q.R COLUMNAM MILLIARIAM PRIMI AB URBE LAPIDIS INDICEM AB IMPP VESPASIANO ET NERVA RESTITUTAM DE RUINIS SUBURBANIS VIAE APPIAE IN CAPITOLIUM TRANSTULIT ANNO M DLXXXIV“, dove viene ricordato il luogo di ritrovamento “presso le rovine suburbane della via Appia” e che venne trasferita in Campidoglio. Il fondo stradale di via Appia, nei tratti antichi meglio conservati, è caratterizzato dal basolato, ovvero dalle antiche lastre pavimentali costituite da enormi blocchi di basalto vulcanico. La via rimase a lungo inutilizzata in seguito alla decadenza dell’Impero Romano e, seppur conservatasi durante le prime invasioni barbariche, soffrì molto per colpa dei Longobardi e dei Normanni ma ancor più per le tremende lotte fratricide e guerre di fazione che straziarono Roma ed il suo agro nel Medioevo. Soltanto una costante manutenzione permise all’Appia Antica di restare efficiente fino al pieno Medioevo, assumendo il ruolo di via di pellegrinaggio sia per la visita alle catacombe, sia di prosecuzione fino a Brindisi, dove i pellegrini si imbarcavano per la Terra Santa; sappiamo che nel VI secolo l’imperatore Teodorico ne riassestava ancora il lastricato. In seguito la via venne abbandonata in favore della “via Latina” e soltanto nel Rinascimento iniziò la sua lenta ripresa, anche grazie agli sforzi di numerosi archeologi ed appassionati storici come Pirro Ligorio, Ennio Quirino Visconti, Antonio Nibby, Carlo Fea, Giovanni Battista De Rossi. Fu grazie a loro che l’Appia divenne uno straordinario “monumento”, con l’espropriazione della sede stradale, ripulita e liberata da qualsiasi intrusione, delimitata e protetta dalle proprietà private con i caratteristici muri pieni, ancora lungamente superstiti. Fu sempre allora che vennero eseguite esplorazioni, ricerche e vere e proprie campagne di scavo, con le conseguenti scoperte e recuperi sensazionali, che furono raccolti e riuniti in strutture murarie appositamente realizzate con frammenti sparsi di fregi, sculture ed epigrafi. La via fu anche detta “di S.Sebastiano” perché conduce all’omonima chiesa e non è raro trovarla così indicata anche in guide ed itinerari del Novecento. Grandi incisori come Piranesi e Rossini ci permettono ancora oggi, grazie ai loro disegni, di godere di quel paesaggio che il tempo ha inesorabilmente distrutto o quantomeno menomato.
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