All’inizio del ‘500 la zona dell’odierna Piazza di Spagna era considerata suburbana: una pianta disegnata da Pirro Ligorio ci presenta un esteso terreno lavorato a vigne con resti di edifici di epoca romana e due palazzi, quello “verso le fratte“, che apparteneva alla famiglia Ferratini e che diventò poi il palazzo del Collegio di Propaganda Fide, e quello di proprietà dei baroni Monaldeschi, che lo vendettero agli ambasciatori di Spagna. La piazza fu a lungo il luogo di arrivo e di sosta delle vetture a cavalli che, entrando dalla Porta del Popolo, punto di accesso dal nord fin dall’antichità, portavano gli stranieri a Roma.
Il nome di Piazza di Spagna deriva dal palazzo sede dell’Ambasciata di Spagna presso lo Stato Pontificio e, dopo il 1870, presso la Santa Sede (nella foto 1), situato sul lato meridionale della piazza e risalente al 1647: la parte settentrionale, quella verso il Babuino, originariamente era detta “piazza di Francia”, a causa delle proprietà francesi della zona, come il terreno della Trinità dei Monti. I diplomatici spagnoli decisero di rinnovare il palazzo nel 1653 affidando i lavori ad Antonio Del Grande, che probabilmente si avvalse di disegni del Borromini, al quale era stata richiesta una progettazione, ma che non realizzò direttamente essendo impegnato in altri lavori. La facciata si arricchì allora al piano nobile di due mignani lignei che raggruppavano cinque finestre sulla sinistra e tre sulla destra; ma il maggior numero di rinnovamenti si ebbero all’interno, con il nuovo grande androne dalle volte sorrette da colonne binate, l’imponente scalone con balaustra a pilastrini ed il cortile con loggiato chiuso da finestroni intervallati da paraste con lo stemma dei re spagnoli sul capitello. Tra il 1685 ed il 1693 furono compiuti rinnovamenti alla facciata mentre nel Settecento si ebbero decorazioni in varie sale all’interno e vi fu allestito anche un teatro privato dove il 14 dicembre 1782 Vittorio Alfieri vi rappresentò la sua “Antigone”. Dopo la breve dominazione francese a Roma, che comportò l’occupazione temporanea dell’edificio da parte delle milizie napoleoniche, si ebbe un radicale rinnovamento della facciata ad opera dell’architetto spagnolo Antonio Celles: furono eliminati i mignani, le finestre del penultimo piano e furono sostituite tutte le altre. Un’ulteriore ristrutturazione si ebbe nel 1857, in occasione della benedizione della colonna dell’Immacolata Concezione: per questa cerimonia la facciata fu ricoperta da una struttura posticcia in legno, con l’erezione di un apposito palco antistante le finestre del piano nobile, dal quale il papa impartì la benedizione. Dopo la cerimonia l’impalcatura fu abbattuta ma furono costruiti i due balconi antistanti le penultime finestre laterali. Un altro intervento importante si ebbe nel 1898 con la decorazione dello scalone d’ingresso con un grandioso affresco raffigurante “La consegna delle chiavi di Granada”, opera di F.Ballester. L’ultimo rinnovamento della facciata fu nel 1932 con l’inserimento del balcone centrale che raggruppa tre finestre del piano nobile. La facciata presenta tre portali ad arco uniti da un unico bugnato rustico, sovrastati dal balcone, ed è formata da tre piani, di cui quello nobile ha tre logge e finestre con timpani triangolari alternati a curvilinei.
Dinanzi al palazzo, che mantiene ancora oggi la sua funzione di residenza ed uffici dell’Ambasciatore di Spagna presso la S.Sede, si erge la Colonna dell’Immacolata Concezione (nella foto 2), che Pio IX volle erigere nel 1857 a memoria del dogma dell’Immacolata Concezione, definito tre anni prima. L’opera è dell’architetto Luigi Poletti, che progettò un monumento complesso: un grande basamento in marmi policromi, movimentato da scalini, sedili, quattro statue raffiguranti Mosè, David, Isaia ed Ezechiele, quattro bassorilievi raffiguranti “La definizione del Dogma”, “Il sogno di S.Giuseppe”, “l’Incoronazione di Maria in Cielo” e “l’Annunciazione”; la colonna di cipollino rosso, alta più di 11 metri e ritrovata nel monastero delle benedettine nei pressi di S.Maria in Campo Marzio nel 1777; infine, una statua gigantesca della “Vergine Immacolata”, in lega di ottone più che di bronzo. Il tutto è alto più di 29 metri e fu pronto due anni dopo la proclamazione del dogma: l’inaugurazione ufficiale avvenne l’8 dicembre 1857. In questa occasione la facciata del palazzo dell’Ambasciata di Spagna fu ricoperta da una tribuna in legno, come sopra già menzionato, decorata con colonne, pilastri, timpano (tutto in legno, cartapesta e gesso), sulla quale sedettero 240 tra vescovi e alti prelati. Il papa arrivò in carrozza, seguito da quasi tutto il Sacro Collegio cardinalizio e dalla Curia Apostolica. Tutto il popolo era riverente di fronte al dogma, anche se le romane ghignavano perchè sapevano che Giuseppe Obici, lo scultore della statua della Madonna, aveva usato una modella bellissima, la suocera. La tradizione vuole che una squadra di Vigili del Fuoco compia una devota scalata per mettere fiori freschi tra le braccia della Madonna ogni anno, la mattina dell’8 dicembre.
L’altro palazzo originario in Piazza di Spagna è quello del Collegio di Propaganda Fide (nella foto 3), eretto dal Bernini e terminato dal Borromini. Il Collegio, il cui scopo fu quello di formare i missionari cattolici che dovevano diffondere la fede nelle contrade più lontane, fu istituito nel 1626 da papa Urbano VIII, da cui anche il nome di Collegio Urbano. Ma il primo nucleo del palazzo risale alla fine del ‘500, quando il cardinale Bartolomeo Ferratini incorporò varie casette in un unico fabbricato. Dopo la morte del cardinale, l’immobile fu acquistato da un monsignore spagnolo, G.B. Vives, che nel 1626 lo donò a papa Urbano VIII Barberini. La facciata è scandita da paraste che isolano in verticale quattro serie di finestre; la fascia centrale ha il portale bugnato con timpano triangolare e finestra sovrastante a timpano curvo e, in alto, la targa con l’iscrizione “COLLEGIUM URBANUM DE PROPAGANDA FIDE” coronata dallo stemma di Urbano VIII con le api dei Barberini tra due festoni. Cantonali bugnati fino al primo piano ed un ricco cornicione, decorato a dentelli e con mensole, concludono il prospetto. Bellissima la tradizione legata alla costruzione di questo edificio. Urbano VIII commissionò, come abbiamo detto, l’opera al Bernini, il quale aveva appena terminato la facciata sulla piazza allorché, come dicevano i diaristi del XVII secolo, papa Urbano “morse” e la fabbrica passò nelle mani del rivale Borromini. Costui si divertì a “sfottere” il Bernini, che abitava di fronte, nel suo palazzetto in via della Mercede, ornando le finestre di grosse orecchie d’asino, ripetendo questo motivo sulla cornice dello stemma papale, posto all’angolo del palazzo. La risposta del Bernini non si fece attendere: sul suo terrazzo apparve un grosso “Priapo” munito di tutti gli attributi mascolini, scolpito dal Bernini stesso. Certo, orecchie d’asino e relativa risposta non rimasero a lungo esposte, ma ne è rimasta la simpatica memoria. Annesso al palazzo vi è l’Oratorio dei Re Magi, costruito originariamente dal Bernini nel 1633, ma poi demolito e ricostruito nelle forme attuali dal Borromini: si tratta di un vasto e luminoso salone decorato a stucchi, con strisce architettoniche diagonali che dividono il soffitto a losanghe. Ai piedi della scalinata vi è la famosa fontana detta “Barcaccia” (nella foto sotto il titolo), scolpita da Pietro Bernini (1628-9), padre di Gian Lorenzo (al quale appartengono le decorazioni laterali). Il nome, solo apparentemente dispregiativo, deriva dalle barcacce che, nel vicino porto di Ripetta, venivano utilizzate per il trasporto del vino. Fu la prima fontana alimentata dal vicino bottino dell’Acqua Vergine. La tradizione vuole che papa Urbano VIII fosse rimasto talmente impressionato da una barca che era venuta ad arenarsi sulla piazza a seguito di una piena del Tevere, da volerne mantenere perpetua memoria. In verità, la “barcaccia” è frutto della genialità del Bernini che sfruttò la raffigurazione di una barca in apparente pericolo di affondare per eliminare il problema relativo alla bassa pressione dell’acqua che alimentava la fontana. Le api ed i soli che decorano la fontana sono i simboli della famiglia di Urbano VIII, i Barberini. I due palazzetti gemelli, ai lati della scalinata di Trinità dei Monti, in un’incisione del 1726 appaiono già conclusi.
Quello sul lato destro della scalinata, chiamato “Casina Rossa” (nella foto 4), apparteneva ad una signora di nome Anna Angeletti, la quale affittava camere ai turisti in visita a Roma. Il poeta Keats, accompagnato dal suo amico pittore Joseph Severn, prese una camera d’angolo al secondo piano. Qui il poeta trascorse gli ultimi giorni della sua vita: morì infatti il 23 febbraio 1821 a soli 26 anni. La finestra della camera si apriva su piazza di Spagna e lo scorrere limpido e musicale delle acque della “Barcaccia” lo accompagnò in quei mesi di solitudine e sofferenza. Forse proprio per questo volle che sulla sua lapide funeraria fosse incisa la frase: “Qui giace un uomo il cui nome fu scritto nell’acqua”, situata nel Cimitero protestante di Roma, dove l’artista è sepolto insieme ai suoi amici Severn e Shelley. La “Casina Rossa” fu acquistata dalla Keats-Shelley Memorial House nel 1906 con l’intenzione di creare un piccolo tempio letterario in onore dei poeti romantici inglesi. L’edificio fu restaurato ed adibito a biblioteca e museo: l’apertura al pubblico, presenziata dal re Vittorio Emanuele III, risale al 3 aprile 1909.
Sull’altro lato della scalinata, sorge il palazzetto gemello (nella foto 5) che ripete fedelmente gli elementi strutturali e decorativi della Casina Rossa. Al piano terreno ospita la sala da tè Babington’s, fondata nel 1893 da due intraprendenti signore inglesi, Miss Babington e Miss Cargill, che seppero, con l’iniziale somma di cento sterline, impiantare il locale che più di tutti diffuse l’uso del tè nella città.
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Nella sezione Roma nell’Arte vedi:
Collegio de Propaganda Fide di G.B.Falda
Piazza di Spagna di G.B.Piranesi