Il toponimo di Piazza di Pietra risulta tutt’oggi ancora incerto, anche se appare molto probabile che derivi dal fatto che in questa zona erano presenti molte “pietre” che provenivano dalle rovine dell’antico “Hadrianeum“, il tempio fatto costruire nel 145 d.C. in onore dell’imperatore Adriano, divinizzato dopo la morte, da suo figlio e successore Antonino Pio, anche se, probabilmente, la costruzione fu voluta dallo stesso imperatore Adriano che intendeva dedicarlo alla moglie Vibia Sabina, morta e divinizzata nel 136.
Ancora oggi sono ben visibili (come possiamo ammirare nella foto sopra) le undici colonne corinzie in marmo bianco, appartenenti al lato nord dell’antico edificio, alte circa 15 metri e con un diametro di m 1,44, che poggiano su un podio di peperino alto circa 4 metri. Sopra le colonne è conservato anche un tratto dell’architrave, in parte rifatto modernamente, ornato di palmette e teste leonine. Immediatamente dietro le colonne si trova il muro esterno di uno dei lati lunghi della cella, in opera quadrata di peperino ed originariamente rivestito di lastre di marmo, come risulta chiaramente dai fori di fissaggio. La cella, priva di abside, era coperta da una volta a botte e decorata tutt’intorno da una serie di pilastri poggianti su un basamento ornato da rilievi rappresentanti le Province romane (oggi esposti nel cortile del Palazzo dei Conservatori), mentre negli spazi intermedi dei pilastri stessi vi erano i trofei. Il tempio era costituito da tredici colonne sui lati lunghi e da otto sui lati corti ed era preceduto ad est da una scalinata, in pratica sul lato rivolto verso “Via Lata“. L’edificio sorgeva al centro di una grande piazza porticata, con colonne di giallo antico, che sul lato verso “Via Lata” si apriva con un arco monumentale denominato “Arco di Adriano“, ma anche “di Antonino” o “dei Tosetti“, dal nome della famiglia proprietaria dell’arco sin dal Medioevo, sul quale vi avevano costruito anche una residenza fortificata con tanto di torre sovrapposta. L’arco scomparve nel XVI secolo allorché la turrita residenza venne riedificata totalmente dai nuovi proprietari, i Ciocci, anche se nel 1700 era ancora ricordato nel toponimo del Vicolo dell’Archetto, oggi corrispondente alla Via di Pietra. Nel 1695 Francesco Fontana fu incaricato da Papa Innocenzo XII di costruire il Palazzo della Dogana di Terra pontificia, ovvero per le merci che arrivavano a Roma via terra (la dogana per quelle che arrivavano via mare era situata invece a Ripa Grande) e l’architetto lo realizzò, grazie al progetto del padre Carlo, proprio tra i resti del “Tempio di Adriano“. Le undici colonne con gli intercolumni chiusi costituirono il corpo centrale del palazzo, sviluppato su due piani di dieci finestre architravate, oltre il pianterreno con quattro porte ed otto finestre architravate. Nel 1873 l’edificio fu acquistato dalla Camera di Commercio che vi pose la sua sede, facendolo ristrutturare da Virginio Vespignani. Il palazzo assunse un aspetto più classico, con un bugnato lungo la fronte, i capitelli delle lesene angolari di ordine corinzio, la soppressione di un piano di finestre nei corpi laterali, sovrastati dal cornicione e dall’attico. Ulteriori lavori furono effettuati nel 1928 per un utilizzo più razionale degli ambienti per la Borsa, secondo un progetto di Tullio Passarelli: in questa occasione furono riaperti gli spazi tra le colonne, liberato lo stilobate e scoperta la scala di accesso.
Al civico 26 di Piazza di Pietra è situato Palazzo Ferrini Cini (nella foto 1), la struttura del quale risale ad una casa acquistata ai primi del Seicento da Demofonte Ferrini, notaio della Reverenda Camera Apostolica originario di Calvi dell’Umbria. L’edificio fu disegnato da Onorio Longhi come ampliamento della casa acquistata dal Ferrini, che era caratterizzata da una splendida decorazione raffigurante probabilmente le virtù teologali ed una donna simbolo di Roma, della quale non resta più nulla. I lavori procedettero lentamente ed il palazzo fu terminato soltanto nel 1743 sotto la direzione di Ferdinando Fuga, quando ormai la proprietà era delle monache Agostiniane di Calvi dell’Umbria, alle quali il Ferrini l’aveva ceduta. Alla fine del Settecento il palazzo fu acquistato dal conte Giuseppe Cini, che lo adattò alle proprie esigenze, inserendovi alcune decorazioni, dal nome “IOSEPH CINI” sull’ampio portale alla splendida altana ad archi aperti, decorata con gli stemmi dei Cini ma con la scritta “FERRINA”, dal cognome dell’antico proprietario. Sul cornicione appaiono la colomba con la spiga di grano, emblemi araldici della famiglia di Aurelia Grana, moglie di Demofonte Ferrini, e l’angelo con la spada e la stella, emblemi araldici dei Ferrini.
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