Il toponimo di Piazza di Montecitorio fu oggetto di varie interpretazioni nel tempo: una è quella che derivi da “Mons Septorium“, per la vicinanza con i “Saepta“, luogo ove si riunivano i cittadini, divisi in centurie, per essere chiamati (dal latino “citare“, ovvero chiamare) ad entrare nei recinti per le votazioni. C’è anche chi ha considerato l’epiteto “accettatorio” per indicare la funzione di scarico dei rifiuti o, più verosimilmente, di terra di riporto, con l’inevitabile conseguenza di una creazione di un grosso cumulo (“mons“), forse in occasione degli scavi delle fondazioni della colossale colonna di Antonino Pio oppure, visto che furono ritrovati i resti di palafitte a significare che il luogo era paludoso, per ricoprire le acque stagnanti ed eliminare il diffondersi della malaria. A proposito della Colonna Antonina, nel 1907, durante i lavori di ampliamento del palazzo Montecitorio, furono rinvenuti i resti di una costruzione di età imperiale, l’Ustrinum, il luogo di cremazione degli imperatori e della loro famiglia: in particolare, questo apparteneva all’imperatore Antonino Pio ed alla moglie Faustina.
Di fronte alla facciata nord dell’Ustrinum era situata la Colonna Antonina, la base della quale (nella foto 1), in marmo bianco, è oggi collocata in Vaticano, insieme al frammento della colonna con l’iscrizione. La colonna fu rinvenuta nel 1703, durante il pontificato di Clemente XI, nei pressi dell’orto del convento dei Padri della Missione. Inizialmente il pontefice pensò di rialzarla e collocarla davanti alla Fontana di Trevi, ma poi l’idea venne abbandonata perché la colonna risultava troppo danneggiata ed i suoi resti accatastati accanto a palazzo Montecitorio, in via della Missione. Nel 1789, sotto il pontificato di Pio VI, venne deciso di utilizzare quanto rimaneva della colonna per restaurare l’obelisco solare di Augusto in piazza di Montecitorio. Nel Medioevo la zona fu vittima dell’incuria e del degrado e fu invasa da una selvaggia vegetazione. Lì sorse, intorno all’anno Mille, la chiesetta di “S.Biagio de hortis” o “de Monte Acceptoro” o “Acceptabili“, che sarà demolita nel 1695 per far posto alla Curia Innocenziana. Il termine “de hortis” richiama altri toponimi della zona, quali via degli Ortacci, via della Vigna, via dei Giardini, a rivelare chiaramente l’aspetto della zona. Il primo edificio di cui si abbia notizia in quest’area è il palazzo del cardinale Nicolò Gaddi, intorno alla metà del Cinquecento; nel 1571 l’edificio fu acquistato dal cardinale Pierdonato Cesi, che lo fece sistemare da Martino Longhi il Vecchio e decorare dal Cavalier d’Arpino. Nel 1584 il palazzo passò al cardinale Giulio Antonio Santorio, arcivescovo di Santa Severina, e poi ai Somaschi di S.Biagio, i quali lo cedettero nel 1649 al cardinale Luigi Capponi, che già vi abitava dal 1613. Piazza di Montecitorio sarà completamente rivoluzionata nella sua topografia allorché, nel 1653, il principe Nicolò Ludovisi acquistò il palazzo del cardinale Capponi per costruirvi una dimora adatta alla sua illustre famiglia. A tale scopo il principe acquistò anche altre case adiacenti ed incaricò della progettazione del nuovo e grande edificio Gian Lorenzo Bernini, il quale, coadiuvato da Giovanni Mattia De Rossi, diede inizio ai lavori che subirono ben presto un rallentamento fino a bloccarsi per mancanza di denaro.
Nel 1694 Papa Innocenzo XII acquistò l’edificio per riunirvi e sistemarvi i tribunali della giustizia civile e penale e la direzione della polizia ed incaricò Carlo Fontana del completamento del palazzo. Il lavoro, nel quale l’architetto fu coadiuvato dal figlio Francesco, si svolse speditamente e nel 1697 l’edificio, che da allora fu denominato Curia Innocenziana, fu completato. La sistemazione di Piazza di Montecitorio, come zona di rispetto della Curia Innocenziana, venne attuata su un piano di Ferdinando Fuga introno al 1735, ma i lavori proseguirono fino al pontificato di Pio VI, quando nel 1792 fu eretto l’obelisco. Palazzo Montecitorio (nella foto sotto il titolo e nella foto 2) presenta una facciata che s’impone per solennità e grandezza, in laterizio, suddivisa in cinque parti scandite da sei grandi paraste. Spicca il complesso di quattro colonne doriche che inquadrano tre porte, una più alta fra le due laterali, sulle quali sono scolpiti due tondi, rappresentanti, quello a sinistra, la “Carità” e quello a destra la “Giustizia“. Al di sopra è situata una lunga loggia con balaustri che racchiude tre delle venticinque finestre a timpani alternativamente triangolari e centinati.
Ai lati del portale (nella foto 3), due serie di cinque finestre architravate ed inferriate sovrastanti finestrelle. Al secondo piano altre venticinque finestre architravate e, sopra, le finestrelle del sottotetto; conclude la facciata un cornicione a mensole su cui poggia un attico slanciato con orologio ottocentesco e con campanile a vela, sulla cui cuspide vi sono una clessidra con ali (allegoria del tempo) ed una croce. Né il campanile né la campana piacquero ad Innocenzo XII, che trovò l’uno troppo grande e l’altra troppo piccola: la campana venne sostituita più tardi con una più grande, battezzata “Maria, Antonia (vi era scolpito il santo di Padova) e Innocenza” (in omaggio al pontefice). Nel secolo scorso un’altra campana andò a far compagnia a “Maria Antonia e Innocenza” ed ambedue venivano utilizzate per annunciare importanti avvenimenti cittadini o nazionali; poi taceranno ambedue, nonostante siano ancora al loro posto. Dal balcone, fin dal 1743, si svolgeva ogni quindici giorni l’estrazione del Lotto: i numeri venivano estratti da un orfanello che dal popolo veniva chiamato “ruffianello”, forse perché ritenuto d’accordo con i funzionari. Con l’Unità d’Italia, palazzo Montecitorio fu espropriato dallo Stato Italiano e destinato ad ospitare la Camera dei Deputati: il 27 dicembre 1871 iniziarono i lavori parlamentari nell’Aula Comotto, cosiddetta dall’ingegnere che costruì nel cortile una sala semicircolare a gradinate su un’intelaiatura di ferro interamente ricoperta di legno, ricavata dal grande cortile semicircolare del Fontana. Ben presto la nuova aula si dimostrò inadeguata e dotata di una pessima acustica; inoltre, a causa di copiose infiltrazioni d’acqua, fu dichiarata pericolante e chiusa nel 1900. Inizialmente si pensò di costruire un nuovo palazzo del Parlamento in via Nazionale, ma poi si decise per l’ampliamento del palazzo berniniano: i lavori furono affidati all’architetto Ernesto Basile, il quale costruì un nuovo edificio alle spalle dell’originale, quello prospiciente piazza del Parlamento, all’interno del quale collocò l’attuale Aula del Parlamento. Dal portale di piazza di Montecitorio si accede in un triplice atrio ed al cortile, con un portico a pianterreno ed una galleria per ogni piano. All’interno notevole il grandioso scalone ed il Salone della Lupa, cosiddetto perché custodisce una grande riproduzione della Lupa capitolina: qui nel 1946 fu proclamato l’esito del referendum con la fondazione della Repubblica. La sala è anche detta “Aventino”, perché qui si radunarono dal 1924 al 1926 i parlamentari dissidenti per protesta dopo l’assassinio di Matteotti. Famoso è poi al pianterreno il “corridoio dei passi perduti”, prospiciente l’aula parlamentare, altrimenti detto il “Transatlantico”, per il soffitto ligneo e le abbondanti decorazioni liberty che ricordano i grandi saloni delle navi. Ma l’ambiente più ricco ed importante è naturalmente la grande Aula, completamente arredata in legno di quercia e con un grande lucernaio sul soffitto. Tutto intorno, in alto, corre un fregio allegorico dipinto su tela da G.A.Sartorio, che rappresenta la “Civiltà Italiana“, le “Virtù del Popolo Italiano” ed i periodi più salienti della sua storia. Davanti a Palazzo Montecitorio si erge l’obelisco di Psammetico II (594-589 a.C.), che vi è raffigurato con l’aspetto di una sfinge sdraiata; vi compaiono anche scarabei alati che reggono il disco solare.
L’obelisco (nella foto 4), alto 21,79 metri, di granito rosso, originariamente era ad Eliopoli, eretto per commemorare le vittorie riportate sugli Etiopi. Fu trasportato a Roma da Augusto ed innalzato nel 10 a.C. nel Campo Marzio, nella zona tra l’attuale Piazza di Montecitorio e piazza di S. Lorenzo in Lucina, per servire da braccio indicatore di un enorme orologio solare. Questo aveva, infatti, la dimensione di 180 metri di lunghezza e 30 di larghezza e consisteva in una vasta platea lastricata in marmo sulla quale linee e lettere di bronzo dorato indicavano la durata delle notti e dei giorni (nella vetrina di un bar in via di Campo Marzio possiamo ancora ammirare la pianta della grandiosa meridiana). Il monolite crollò verso il IX secolo in seguito ad un incendio e giacque sepolto per molti secoli, dimenticato da tutti, anche perché come orologio solare aveva funzionato solo per 30 anni, come ci racconta Plinio, che attribuiva la causa del guasto o allo spostamento del terreno in seguito ad un terremoto o al mutato corso del sole oppure allo spostamento della terra dal suo asse. L’obelisco fu scoperto nel 1748, sotto le fondamenta della Casa degli Agostiniani di S.Maria del Popolo, dove un’iscrizione, posta sopra il portone di accesso, ne ricorda ancora l’avvenimento. L’obelisco fu eretto nella piazza di Montecitorio da papa Pio VI tra il 1789 ed il 1792, per opera dell’architetto Giovanni Antinori che lo restaurò con il granito rosso prelevato dai frammenti della Colonna Antonina, come sopra menzionato.
Sulle quattro facce della base dell’obelisco vi sono altrettante iscrizioni, una delle quali, più antica, è ripetuta sulla fronte e sul retro (verso S.Maria in Aquiro e verso il palazzo) e così recita: “IMP CAESAR DIVI F AUGUSTUS PONTIFEX MAXIMUS IMP XII COS XI TRIB POT XIV AEGYPTO IN POTESTATEM POPULI ROMANI REDACTA SOLI DONUM DEDIT”, ovvero “L’Imperatore Cesare Augusto figlio del Divo Giulio Pontefice Maximo imperatore per la 12° volta, console per l’11° volta, insignito della 14a potestà tribunicia, ridotto l’Egitto in potere del Popolo Romano, offrì in dono al Sole”. Sulla faccia di sinistra (verso piazza Colonna) “QUAE CELERES OLIM SIGNABAT PYRAMIS HORAS FRACTA DEHINC LAPSU SPRETA IACEBAT HUMO ANTIQUUM RENOVATA DECUS NUNC FRONTE SUPERBA DINUMERAT SEXTI TEMPORA FAUSTA PII IOAN ANTINORIO CAMERTE ARCHIT”, ovvero “L’obelisco che un tempo segnava le ore fugaci e che successivamente, rotto per la caduta, giaceva abbandonato sotto terra, rinnovato l’antico decoro, ora con superbo aspetto segna i fausti tempi di Pio VI, architetto Giovanni Antinori di Camerino”. L’altra, di destra, (verso via degli Uffici del Vicario) “PIUS VI PONT MAX OBELISCUM REGIS SESOSTRIDIS A.C. CAESARE AUGUSTO HORARUM INDICEM IN CAMPO STATUTUM QUEM IGNIS VI ET TEMPORUM VETUSTATE CORRUPTUM BENEDICTUS XIIII P M EX AGGESTA HUMO AMOLITUS RELIQUERAT SQUALORE DETERSO CULTUQUE ADDITO URBI CAELOQUE RESTITUIT ANNO MDCCXCII SACRI PRINCIPATUS EIUS XVIII”, ovvero “Pio VI Pontefice Maximo l’obelisco del re Sesostri, da Caio Cesare Augusto eretto come indicatore delle ore in Campo Marzio e che, essendo rovinato per gli incendi e per il passar del tempo, Benedetto XIV, liberatolo dalla terra accumulatasi sopra, aveva abbandonato, restituì all’Urbe ed al cielo nell’anno 1792, 18° del suo pontificato”. Si volle anche ripristinare la sua originale funzione di gnomone e sul selciato vennero predisposte una serie di selci-guida: sul culmine dell’obelisco fu posta una copia dell’originale globo di bronzo forato (nella foto 5, per l’occasione decorato con le stelle, emblemi araldici della famiglia Braschi alla quale Pio VI apparteneva) con una fessura attraverso la quale, a mezzogiorno, i passanti raggi solari avrebbero indicato le ore sul selciato. Purtroppo non si riuscì a renderlo funzionante (come, d’altronde, quello antico) e rimase solo un bel monumento.
Su Piazza di Montecitorio prospetta la facciata posteriore di palazzo Wedekind (nella foto 6), dove erano situati, nei pianterreni ed al primo piano, gli Uffici della Posta delle Lettere (dove si impostavano o si ricevevano le lettere per tutto lo Stato e per l’Estero a giorni ed orari prestabiliti) e l’Ufficio delle Diligenze Pontificie, con partenze ed arrivi per Ferrara e la Toscana. Al civico 115 della piazza è situato palazzo Macchi di Cellere (nella foto 7), costruito nel 1733 su progetto di Tommaso Matti sull’isolato addossato a palazzo Capranica, dove sorgevano alcune case appositamente demolite. La sua edificazione avvenne contemporaneamente alla sistemazione della piazza di Montecitorio voluta da papa Clemente XII e fu destinato ad accogliere gli uffici collegati all’antistante Curia Innocenziana. Tutto è ricordato nell’iscrizione sovrastante il portale: “CLEMENS XII P.M. LATIOREM VIAM ROMANIQUE FORI PROSPECTUM DISIECTIS DOMIBUS IGNOBILEM VICUM INSIDENTIBUS LIBERALI SUMPTU APERUIT ANNO DOMINI MDCCXXXIII PONT III“, ovvero “Clemente XII Pontefice Massimo con generosa spesa aprì una strada più ampia e con la prospettiva del Foro Romano (oggi naturalmente non più godibile per la costruzione di numerosi edifici che nel frattempo ne hanno coperto la visuale) dopo aver demolito le case che stavano su un ignobile vicolo nell’anno del Signore 1733, anno terzo del suo pontificato”.
Ai primi dell’Ottocento il palazzo fu acquistato dai Macchi di Cellere, una ricca famiglia viterbese che diede alla chiesa monsignori e cardinali. Restaurato nel 1990, con particolare aderenza alle caratteristiche originali, è sede di uffici in gran parte della Camera dei Deputati. L’edificio è composto di quattro piani, con undici finestre a cornici semplici: la facciata, tripartita, presenta un avancorpo centrale a bugne lisce con un ampio portone decorato con volute e sormontato dalla sopra menzionata iscrizione. La piazza è completata con la parte posteriore del palazzo Wedekind e con il settecentesco e barocco palazzo Del Cinque, sorto sulle case dei Quintili. Il portale, situato al civico 52, in prossimità di via della Colonna Antonina, è decorato con conchiglie e rami e sovrastato da un balcone la cui porta-finestra ha uno stemma abraso. Ricordiamo che i marchesi Del Cinque, che ereditarono il nome dei Quintili, sono un’antica famiglia del Quattrocento che possedevano un palazzo più antico a Trastevere, nel vicolo che da essi prese il nome.
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