La famosa località sita nell’Esquilino che veniva chiamata ad Spem Veterem, cioè “alla Speranza Vecchia”, a causa di un tempio dedicato a questa divinità nel 477 a.C., era il punto dove convergevano otto degli undici acquedotti che alimentavano Roma: questa località corrisponde approssimativamente all’attuale Porta Maggiore (nella foto sopra), che originariamente era la monumentalizzazione dell’Acquedotto Claudio nel punto dove questo scavalcava la Via Labicana e la Via Praenestina.
Le arcate dell’acquedotto assunsero l’aspetto di un vero e proprio arco di trionfo e fu una conseguenza naturale quindi che, quando l’imperatore Aureliano nel 272 d.C. decise di dotare Roma di una nuova e più possente fortificazione, ovvero le Mura Aureliane, la struttura fu inserita nel percorso della cinta muraria per accelerarne i tempi di costruzione (al pari di altri monumenti come la Piramide Cestia, l’Anfiteatro Castrense o i Castra Praetoria) ed utilizzata come porta con il nome di Porta Praenestina o Porta Labicana.
Porta Maggiore, che deve probabilmente il suo nome al fatto che da qui si passava per recarsi alla Basilica di S.Maria Maggiore, è in opera quadrata di travertino, con i blocchi a bugnato rustico caratteristici dell’architettura “claudiana”. Il prospetto, alto 32 metri e lungo 24, è formato da due grandi fornici tra pilastri ornati da edicole “finestrate”, inquadrate da semicolonne corinzie sostenenti timpani triangolari e poste su un alto basamento che nell’edicola centrale, più larga delle altre due, è attraversato da un arco destinato al traffico pedonale.
Il prospetto è sormontato da un attico suddiviso da marcapiani in tre fasce, delle quali le due superiori corrispondono ai canali degli acquedotti Anio Novus in alto e Claudio in basso (ossia la fascia centrale): nella foto 1 possiamo vedere un particolare dell’attico della porta con gli spechi dei due acquedotti.
Le iscrizioni sull’attico, ripetute sulle due facciate (nella foto 2 il lato interno di Porta Maggiore), sono quelle originarie di Claudio in alto (sul condotto dell’Anio Novus quindi), di Vespasiano per il restauro del 71 d.C. (sul condotto dell’Aqua Claudia) e di Tito in basso, sul basamento dell’attico, per il restauro dell’82 d.C.
L’acquedotto prendeva origine dalle fonti Cerula e Curzia (come recitano le iscrizioni poste sulla porta), situate nell’alta valle dell’Aniene, tra Arsoli e Marano Equo, a circa 68 km da Roma.
In alto l’iscrizione di Claudio:
TI(BERIUS) CLAVDIVS DRUSI F(ILIUS) CAISAR AUGVSTUS GERMANICUS PONTIF(EX) MAXIM(US) TRIBUNICIA POTESTATE XII CO(N)S(UL) V IMPERATOR XXVII PATER PATRIAE AQUAS CLAUDIAM EX FONTIBUS QUI VOCABANTUR CAERULEVS ET CURTIVS A MILLIARIO XXXXV ITEM ANIENEM NOVAM A MILLIARIO LXII SUA IMPENSA IN URBEM PERDUCENDAS CURAVIT, ovvero “Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico, figlio di Druso, Pontefice Maximo, nel suo dodicesimo anno di Potere tribunizio, Console per la quinta volta, Imperatore per la ventisettesima volta, Padre della Patria, provvide a far portare a Roma, a proprie spese, l’Acqua Claudia dalle sorgenti che si chiamano Caeruleus e Curtius dal 45° miglio, così come l’Anio Novus dal 62° miglio”.
Al centro l’iscrizione di Vespasiano:
IMP(ERATOR) CAESAR VESPASIANUS AUGUST(US) PONTIF(EX) MAX(IMUS) TRIB(UNICIA) POT(ESTATE) II IMP(ERATOR) VI CO(N)S(UL) III DESIG(NATUS) IIII P(ATER) P(ATRIAE) AQUAS CURTIAM ET CAERVLEAM PERDUCTAS A DIVO CLAVDIO ET POSTEA INTERMISSAS DILAPSASQUE PER ANNOS NOVEM SUA IMPENSA URBI RESTITUIT, ovvero “L’Imperatore Cesare Vespasiano Augusto, Pontefice Maximo, nel suo secondo anno di Potere tribunizio, Imperatore per la sesta volta, Console per la terza volta, designato (Console) per la quarta volta, Padre della Patria, restituì a Roma, a proprie spese, le Aquae Curtia e Caerulea portate dal Divino Claudio e poi interrotte e cadute in rovina per nove anni”.
In basso l’iscrizione di Tito:
IMP(ERATOR) T(ITUS) CAESAR DIVI F(ILIUS) VESPASIANUS AUGUSTUS PONTIFEX MAXIMUS TRIBUNIC(IA) POTESTATE X IMPERATOR XVII PATER PATRIAE CENSOR CO(N)S(UL) VIII AQUAS CURTIAM ET CAERULEAM PERDUCTAS A DIVO CLAVDIO ET POSTEA A DIVO VESPASIANO PATRE SUO URBI RESTITUTAS CUM A CAPITE AQUARVM A SOLO VETUSTATE DILAPSAE ESSENT NOVA FORMA REDUCENDAS SUA IMPENSA CURAVIT, ovvero “L’Imperatore Tito Cesare Vespasiano Augusto, figlio del Divino (Vespasiano), Pontefice Maximo, nel suo decimo anno di Potere tribunizio, Imperatore per la diciassettesima volta, Padre della Patria, censore, Console per l’ottava volta, provvide a far riportare a proprie spese in un nuovo condotto le Acque Curtia e Caerula, che erano state portate dal Divino Claudio e poi restituite a Roma da suo padre il Divino Vespasiano, poiché erano cadute in rovina presso la sorgente delle acque fin dalle fondamenta a causa dell’età”.
Tra i due archi divenuti porte, al tempo di Aureliano fu costruita una torre rotonda inglobando al suo interno l’antistante Sepolcro di Eurisace (ritrovato quando la torre fu demolita nel 1838); altre due torri, semicircolari, erano ai lati esterni.
La porta venne restaurata e fortificata nel 402 dall’imperatore Onorio che fece costruire un bastione avanzato, con attico finestrato e merlatura, inserendovi due aperture, una sulla Via Labicana a sud (oggi Via Casilina) ed una sulla Via Praenestina a nord, rinforzate, a scopo difensivo, da torri quadrate poste ai lati e da un bastione cilindrico al centro: nell’incisione qui sopra di Giuseppe Vasi del XVIII secolo si può notare il bastione sporgente con le due torri ai lati della porta. Tuttavia, mentre l’apertura su Via Prenestina rimase sempre funzionante, quella sulla Via Labicana venne via via abbandonata e ben presto giacque sotto al piano di calpestio, venendosi così a creare uno sfasamento di quota che andò accentuandosi sempre più con il succedersi dei restauri.
In seguito, il fornice orientato verso Via Labicana fu anche murato per difendere la porta più agevolmente: questa modifica probabilmente ebbe luogo un secolo dopo che la porta era stata rinforzata, cioè appena prima che Roma fosse assediata dagli Ostrogoti (537).
Il bastione onoriano venne demolito nel 1838 per volere di Gregorio XVI, il quale per motivi archeologici volle ripristinare l’aspetto primitivo della porta, riportandola all’assetto aureliano, con la restrizione dei fornici con due muri merlati (entrambi ben visibili nella foto 4). Tale restringimento merlato fu demolito nel 1915 allorché il Comune di Roma sistemò il piazzale ma furono i lavori effettuati nel 1956 dall’architetto Antonio Petrignani a riportare Porta Maggiore allo stato attuale e la piazza all’antico livello, riscoprendo il basolato della Via Labicana e della Via Praenestina, insieme ai resti dell’antiporta in mattoni.
Nel corso di queste demolizioni del 1838 si ebbe la sorpresa di rinvenire un sepolcro che era rimasto incluso nella torre centrale tra le due porte: si tratta del Sepolcro di Marco Virgilio Eurisace e di sua moglie Atistia (nella foto 5). Questo sepolcro, ben visibile subito fuori Porta Maggiore, è caratterizzato da cavità circolari che simboleggiano le impastatrici utilizzate nei forni di età romana: infatti Eurisace era un fornaio, come precisa anche l’iscrizione EST HOC MONIMENTUM MARCEI VERGILEI EURYSACIS PISTORIS REDEMPTORIS APPARET, ovvero: “Questo sepolcro appartiene a Marco Virgilio Eurisace, fornaio, appaltatore, apparitore”; da segnalare che sul lato meridionale vi è scritto MARCI VERGILI e non la forma arcaica MARCEI VERGILEI. L’epigrafe sta a significare che il fornaio forniva i suoi prodotti allo Stato e che era ufficiale subalterno (apparitore) di una personalità di primo piano, forse un Sacerdote o un Magistrato. A totale conferma della sua professione, l’urna dove erano conservate le ceneri della moglie Atistia (ora al Museo delle Terme) era fatta a forma di madia da pane, o panarium come è definita dall’epigrafe incisavi.
Inoltre un fregio (nella foto 6 in dettaglio) che corre tutto intorno al monumento raffigura le varie fasi della panificazione: pesatura e molitura del grano, setacciatura della farina, preparazione dell’impasto, pezzatura e infornata dei pani.
La tomba si può datare tra la fine della Repubblica ed i primi anni dell’Impero, ovvero tra il 30 ed il 20 a.C. Il nucleo del monumento è costituito, in basso, da blocchi di tufo, in alto di opera cementizia.
Il sepolcro custodiva anche un gruppo scultoreo che raffigurava Erisace e Atistia (nella foto 7), rimosso negli anni Cinquanta ed oggi esposto presso la Centrale Montemartini: in primo piano l’epigrafe di Atistia in cui Eurisace ricorda che FUIT ATISTIA UXOR MIHEI FEMINA OPITUMA VEIXSIT QUOIUS CORPORIS RELIQUIAE QUOD SUPERANT SUNT IN HOC PANARIO, ovvero “Atistia era mia moglie, visse come donna meravigliosa, della quale i resti del corpo che sopravvivono sono in questo panario (ovvero l’urna a forma di cesta per il pane)”.
La datazione dei lavori onoriani sulla porta è comunque certificata da un’iscrizione (visibile anche sul versante esterno di Porta Tiburtina) posta all’estrema sinistra di Piazzale Labicano (quindi sul lato esterno della porta), dove è rimasto un tratto della cortina in pietra bianca del V secolo (nella foto 8). L’iscrizione, oltre alle consuete lodi per gli imperatori Arcadio ed Onorio, riporta, come curatore dell’opera, il nome di Flavio Macrobio Longiniano, Prefetto di Roma nel 402 ma soprattutto risulta di grande interesse storico perché contiene il nome di Flavio Stilicone, il generale romano giustiziato nel 408 perché accusato di tradimento e connivenza con il visigoto Alarico I. Il suo nome subì una damnatio memoriae e venne abraso da tutte le iscrizioni e cancellato da tutte le fonti ufficiali: si trattò però di una damnatio parziale, p forse una semplice dimenticanza, perché, mentre sull’iscrizione di Porta Tiburtina il nome di Stilicone risulta cancellato, non altrettanto è accaduto su questa, identica, di Porta Maggiore:
S P Q R IMPP(ERATORIBUS) CAESS(ARIBUS) DD(OMINIS) NN(OSTRIS) INVICTISSIMIS PRINCIPIBUS ARCADIO ET HONORIO VICTORIBUS AC TRIUMPHATORIBVS SEMPER AUGG(USTIS) OB INSTAURATOS URBI(S) AETERNAE MUROS PORTAS AC TURRES EGESTIS IMMENSIS RUDERIBUS EX SUGGESTIONE V(IRI) C(LARISSIMI) ET INLUSTRIS MILITIS ET MAGISTRI UTRIUSQ(UE) MILITIAE FL(AVII) STILICHONIS AD PERPETUITATEM NOMINIS EORUM SIMULACRA CONSTITUIT CURANTE FL(AVIO) MACROBIO LONGINIANO V(IRO) C(LARISSIMO) PRAEF(ECTO) URBIS D(EVOTO) N(UMINI) M(AIESTATI)Q(UE) EORUM, ovvero «Il Senato e il Popolo di Roma appose per gli Imperatori Cesari Nostri Signori e principi invittissimi Arcadio e Onorio, vittoriosi e trionfanti, sempre augusti, per celebrare la restaurazione delle mura, porte e torri della Città Eterna, dopo la rimozioni di grandi quantità di detriti, dietro suggerimento del distinto e illustre soldato e comandante di entrambe le forze armate, Flavio Stilicone, le loro statue vennero erette a perpetuo ricordo del loro nome. Flavio Macrobio Longiniano, distinto prefetto dell’Urbe, devoto alle loro maestà e ai divini numi curò il lavoro.»
Sotto è posta un’altra lapide che ricorda il restauro di Porta Maggiore per volontà di Papa Gregorio XVI Cappellari:
IUSSU GREGORII XVI PONT(IFICIS) MAX(IMI) LAXATIS SPATIIS AREAE HUIUS INSCRIPTIO PORTAE ARCADI ATQUE HONORI HEIC COLLOCATA EST FUNDAMENTA SUO IN LOCO RESTANT SIGNATA LAPIDE MEMORIAE MONUMENTI PERENNANDAE, ovvero “Per ordine di Gregorio XVI Pontefice Maximo, dopo l’espansione di quest’area, fu qui collocata l’iscrizione della Porta di Arcadio e Onorio Le fondamenta rimangono al loro posto, indicate da una pietra, per perpetuare la memoria del monumento”.
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