Nel Medioevo Via Giulia era un’importante arteria stradale tanto da essere definita “Via Magistralis” perché reputata una via maestra, anche se tortuosa e fangosa in quanto soggetta alle inondazioni del Tevere. Nel 1478 Sisto IV della Rovere, nel piano di riorganizzazione della città, ristrutturò questa via che nel frattempo era stata denominata “Via Mercatoria” perché collegava la zona ad alto potenziale finanziario (Piazza di Ponte S.Angelo) con i mercati di Campo de’ Fiori e di Piazza Navona. Ma fu nel 1508 che Papa Giulio II della Rovere progettò, col Bramante, la prima e la più lunga strada di Roma (1 Km) a tracciato rettilineo (tanto che fu chiamata anche “Via Recta“), denominata “Strada Julia” dal nome del pontefice. Lungo questa strada si allinearono i “blasoni” più importanti dell’epoca, dai Sacchetti ai Ricci ed ai Chigi (per lo più di origine fiorentina o, almeno, toscana), a testimonianza della notevole importanza della via. La costruzione dei muraglioni del Tevere, avvenuta dopo il 1870, stravolse l’aspetto più caratterizzante della via: sparirono le case lungo il fiume, i palazzi vennero ridimensionati o eliminati, come accadde per il cosiddetto “Palazzo dei Centopreti“, al quale un tempo si appoggiava, come fondo pregevole della via, la fontana oggi in Piazza Trilussa.
Via Giulia è condivisa da due rioni: dall’estremità settentrionale di Piazza dell’Oro fino all’incrocio con Via delle Carceri e Vicolo della Scimia appartiene al rione Ponte; di qui fino all’estremità meridionale di Piazza S.Vincenzo Pallotti appartiene al rione Regola. Prendiamo qui in considerazione la zona di appartenenza al rione Regola.
Iniziando dalla suddetta Piazza Pallotti, sulla sinistra di Via Giulia, addossata al muro, troviamo la Fontana del Mascherone (nella foto 1) che fa da fondale all’antistante Via del Mascherone. Nel 1570 la “Congregatione sopra le fonti” aveva già preventivato una fontana “in mezzo a Strada Julia“, ma non fu mai realizzata per la scarsa alimentazione dell’Acqua Vergine. La fontana si poté costruire solo qualche anno dopo, agli inizi del Seicento, quando Paolo V inaugurò il nuovo acquedotto dell’Acqua Paola, probabilmente nello stesso luogo dove era stata prevista quella di 50 anni prima. La costruzione della fontana, della quale è ignoto l’autore, fu realizzata sotto gli auspici e con i soldi dei Farnese, molto probabilmente nello stesso periodo dell’adattamento delle due vasche di Piazza Farnese a fontane, ossia nel 1626, a scopo di beveratore pubblico. Originariamente questa fontana non era addossata al muro come oggi, ma rimaneva isolata ed arretrata di qualche metro in una specie di piccola piazza: la trasformazione avvenne alla fine dell’Ottocento in occasione dei lavori di costruzione dei muraglioni del Tevere. La fontana è costituita da un’antica vasca rettangolare in porfido, proveniente probabilmente da antiche terme romane, al di sopra della quale si innalza un prospetto marmoreo, lateralmente delimitato da due grosse volute sormontate da una palla di travertino; nel mezzo è posto il grosso Mascherone in marmo bianco, anch’esso di età romana, che dalla bocca getta l’acqua che si raccoglie in un sottostante semi-catino a forma di conchiglia: il tutto è sormontato dal giglio araldico farnesiano, originariamente in travertino, ma nell’Ottocento sostituito con uno in ferro. Molto rinomata la storia di questa fontana che gettò vino per tre giorni allorché fu fatto Gran Maestro dell’Ordine di Malta il nobile Marc’Antonio Zondadari (1720).
Via Giulia è scavalcata dal caratteristico “Arco Farnese”, o “dei Farnesi” (nella foto sotto il titolo), quell’arco che, secondo il progetto di Michelangelo, avrebbe dovuto congiungere Palazzo Farnese ed i suoi giardini alla Villa Farnesina, sull’altra sponda del Tevere.
Su Via Giulia getta una malinconica nota la macabra facciata della chiesa di S.Maria dell’Orazione e Morte (nella foto 2), fondata dalla Compagnia, poi Arciconfraternita, detta appunto dell’Orazione e Morte, che aveva lo scopo di raccogliere i corpi dei morti senza nome, trovati in campagna o annegati nel Tevere, e provvedere loro con cristiana sepoltura. La Compagnia, istituita nel 1538, si stabilì originariamente nelle chiesa di S.Lorenzo in Damaso, poi nel 1552 nella chiesa di S.Caterina da Siena (vedi foto 10), pochi mesi dopo nella piccola chiesa, oggi sconsacrata, di S.Giovanni in Ayno, dove rimase molti anni, almeno fino al 1571, quando risulta come nuova sede la chiesa di S.Caterina della Rota. Nel 1572 l’Arciconfraternita acquistò il terreno, dove la chiesa attuale sorge, da monsignor Attilio Ceci al prezzo di 550 scudi, oltre a due case confinanti, di proprietà della famiglia Massimi, al prezzo di 700 scudi. Iniziarono così i lavori per la costruzione della nuova chiesa che fu consacrata il 25 marzo 1576, con annesso oratorio ed un vasto cimitero, parte sotterraneo e parte sulle rive del Tevere, demolito nel 1886 in occasione della costruzione dei muraglioni. Il cimitero era composto di stanzoni decorati con le ossa dei cadaveri, secondo un macabro uso di cui a Roma esistono ancora tracce (esempio ne è la chiesa di S.Maria della Concezione). Il sodalizio crebbe tanto di importanza e fama che la chiesa, divenuta troppo angusta, fu ristrutturata ed ampliata da Ferdinando Fuga nel 1737. La facciata è ricca di colonne e pilastri ed è divisa in due ordini, ciascuno con timpano curvo, spezzato quello inferiore, racchiuso in un secondo timpano triangolare quello superiore.
Il portale principale (nella foto 3), decorato con teschi alati, è sormontato da un timpano semicircolare, all’interno del quale è raffigurata una clessidra, simbolo della morte; nella fascia della cornice che divide i due ordini appare la seguente iscrizione: «IND(ULGENTIA) PLEN(ARIA) QUOT(IDIANA) PERPET(UA) PRO VIVIS ET DEFUNCTIS», ovvero “Indulgenza plenaria quotidiana perpetua per i vivi e per i defunti”.
Alla base dei pilastri, accanto ai due portali minori, si vedono due riquadri marmorei (nella foto 4) con scheletri graffiti, appartenuti alla vecchia chiesa, con le iscrizioni: «ELEMOSINA PER LA LAMPADA PERPETUA DEL CEMETRIO» con la targa che ricorda “HODIE MIHI CRAS TIBI“, ovvero “Oggi a me, domani a te”. L’altro riquadro presenta l’iscrizione «ELEMOSINA PER I POVERI MORTI CHE SI PIGLIANO IN CAMPAGNA MDCXCIV (1694)» con la Morte comodamente seduta su una panca (ancora con la clessidra in mano) che contempla con sufficienza un cadavere disteso a terra. L’ordine superiore presenta un finestrone centrale con balaustra, tra colonne e pilastri, sormontato da un timpano triangolare decorato con l’immancabile teschio alato.
L’interno della chiesa costituisce un ovale longitudinale scandito da colonne con quattro altari ai lati, con alternanza di elementi concavi e convessi e cupola ovale. Tra la prima e la seconda cappella a destra, “S.Antonio Abate” e “S.Paolo di Tebe“, opera di Giovanni Lanfranco; nella seconda cappella, con architettura di Paolo Posi, buona copia del “S.Michele Arcangelo” di Guido Reni; sull’altare maggiore una “Crocifissione” di Ciro Ferri del XVII secolo; tra la seconda e la prima cappella di sinistra “S.Simeone Stilita“, altro affresco di Giovanni Lanfranco.
Adiacente alla chiesa si estende Palazzo Falconieri (nella foto 5), la struttura originaria del quale fu realizzata nel Cinquecento per i nobili Ceci ma poi venduto nel 1576 alla famiglia Odescalchi. Nel 1606 fu acquistato dai Farnese e poi ceduto ad Orazio Falconieri, che ne affidò il restauro a Francesco Borromini nel 1650. Questi ampliò l’edificio sviluppando la facciata da otto a undici finestre ed aggiungendo un secondo portale, uguale a quello già esistente sulla sinistra, sovrastato da un balcone che ha nella chiave dell’arco una testa di falco, emblema dei Falconieri, mentre quello originario aveva il giglio dei Farnese. A coronamento vi aggiunse il cornicione decorato con elmi, scudi, corazze ed elementi dello stemma degli Odescalchi (leone, aquila ed incensiere).
Ai lati della facciata, inoltre, vi sono due erme con testa di falco e seni (nella foto 6), che alludono alla famiglia Falconieri.
Suggestiva quanto mai caratteristica è la fontana (nella foto 7) situata sullo sfondo del cortile, tra le due rampe di una scala, anche questa presunta opera del Borromini. È costituita da una nicchia a conchiglia al centro della quale, da una vasca a fior di terra, si elevano e si fronteggiano due delfini con le code attorcigliate ed in atto di sostenere una tazza semicircolare, la quale riceve l’acqua che esce a ventaglio dalla bocca di un sovrastante mascherone. Il palazzo fu abitato dal cardinale Joseph Fesch e dalla sorellastra Letizia Bonaparte, madre di Napoleone: alla fine dell’Ottocento fu venduto ai Medici del Vascello, dai quali fu acquistato dall’ungherese Vilmos Frankoi, fondatore dell’Istituto storico-geografico; nel 1927 il palazzo fu ceduto allo Stato ungherese, che vi stabilì la sede dell’Accademia d’Ungheria.
Poco più avanti, al civico 167 di Via Giulia, è situato Palazzo Baldoca Muccioli (nella foto 8), un edificio cinquecentesco acquistato da Guglielmo Della Porta il quale lo rifece quasi completamente. Fu poi proprietà dei Baldoca, segnalati come proprietari da Giovanni Battista Nolli nella sua Pianta di Roma del 1748; successivamente passò ai Muccioli, marchigiani entrati nella nobiltà romana nel 1814. Nella prima metà del Novecento fu proprietà di Lord Rennel of Rodd, ambasciatore inglese in Italia, che lo fece restaurare nel 1928. La facciata consta di due piani con sei finestre ciascuno. Al pianterreno ve ne sono cinque con inferriate, mensoloni e sottostanti finestrelle. Sopra il primo marcapiano le sei finestre sono architravate, sovrastate da altrettante finestrelle quadrate incorniciate, chiuse da inferriate, alcune delle quali sono murate. Il secondo piano ha semplici finestre incorniciate. Un cantonale presenta bugne rustiche di diversa dimensione alternate fino al primo piano. Il portale, ad arco a bugne, non è al centro della facciata ed immette in un cortile con arcate chiuse (tranne una) scandite da lesene con capitelli dorici. In fondo vi è un’edicola con nicchia affiancata da semicolonne e con una fontanella. In alto si vede lo stemma dei Rodd. Sempre nel cortile, agli angoli, si notano due statue muliebri e le pareti decorate a graffito. Al di sopra del cornicione vi è una sopraelevazione di epoca più tarda.
Segue, al civico 163 di Via Giulia, il cinquecentesco Palazzo Cisterna (nella foto 9), anch’esso appartenuto a Guglielmo Della Porta. L’edificio divenne proprietà di Missionari Spagnoli e poi, nei primi anni del Novecento, del pittore Eugenio Cisterna. Nonostante le modifiche, gli elementi cinquecenteschi sono ancora ravvisabili, come il portone a bugne con stemma abraso, sormontato al primo piano dal balcone con porta-finestre. Al secondo piano, sull’architrave di cinque finestre vi sono le scritte: “FRANCISCUS TANCREDA” (un proprietario dell’edificio) e “GUILELMUS D(ELLA) P(ORTA) ME(DIOLANENSIS) S(CULPTOR) CI(VIS) RO(MANUS)”, ovvero “Guglielmo Della Porta, milanese, scultore, cittadino romano”. Il terzo piano presenta cinque finestrelle sormontate dal cornicione che presenta una decorazione a dentelli.
Adiacente a Palazzo Cisterna è situata la settecentesca chiesa della colonia senese a Roma, S.Caterina da Siena (nella foto 10), opera di Paolo Posi.
La facciata concava risulta a due ordini: quello inferiore presenta un alto portale, inquadrato da due colonne e sormontato dallo stemma della città di Siena (uno scudo gotico diviso orizzontalmente in due parti, sopra di colore argento e sotto di colore nero), mentre quello superiore un finestrone centrale, ai lati del quale vi sono due tondi marmorei a rilievo (nella foto 11) all’interno dei quali appare la scritta “SPQS” (“Senatus PopulusQue Senensis“, ovvero il “Senato ed il Popolo di Siena”) e la raffigurazione della Lupa con Senio ed Ascanio, i figli di Remo che, secondo la leggenda, grazie all’aiuto del Dio Apollo fuggirono da Romolo che voleva ucciderli portando con loro una lupa marmorea. Dopo alcuni giorni di cammino, i due fratelli giunsero sulle rive di un piccolo corso d’acqua, la Tressa, ed in quel luogo eressero un accampamento, divenendone ben presto, per rango e maestria nelle armi, capi di quella piccola comunità: fu così che venne fondata Siena che, sempre secondo la leggenda, prese il nome proprio da Senio.
Dopo la chiesa, al civico 151, segue il Palazzo del Collegio Spagnolo (nella foto 12), costruito tra il 1848 ed il 1862 da Antonio Sarti e Pietro Camporese come ristrutturazione ed ampliamento degli stabilimenti spagnoli che esistevano dal Seicento e comprendenti l’ospizio e la residenza dei cappellani della retrostante chiesa di S.Maria di Monserrato.
Il palazzo sviluppa su tre piani e presenta al centro lo stemma di Castiglia (nella foto 13) coronato ed affiancato da due angeli, con l’iscrizione: “SEDENTE PIO IX PONT MAX ELISABETH II HISP REGINA PAUPERIBUS PEREGRINIS INFERMIS ANNO DOMINI MDCCCLXII”, ovvero “Durante il pontificato di Pio IX, Elisabetta II, Regina di Spagna, (eresse) per i poveri pellegrini infermi nell’Anno del Signore 1862”. Il pianterreno presenta un rivestimento basamentale a bugne lisce su cui si aprono il portale centinato e finestre anch’esse centinate. Al primo piano, dopo una fascia marcapiano, vi sono finestre architravate e, al di sopra dell’ammezzato con finestre incorniciate, vi è un altro marcapiano simile al primo su cui poggia l’ultimo piano.
Di fronte al Palazzo del Collegio Spagnolo, al civico 16 di Via Giulia, è situato Palazzo Varese (nella foto 14), costruito nel 1618 dall’architetto Carlo Maderno per monsignor Diomede Varese e, dopo la sua morte (1652), passato ai familiari, tra i quali è da ricordare un altro monsignore, Pompeo, Nunzio Apostolico a Parigi dal 1675 al 1679. Dai Varese il palazzo passò ai Degli Atti che assunsero il cognome di Varese: nel 1788 monsignor Giuseppe Degli Atti Varese concesse il palazzo alla Congregazione di Propaganda Fide e un secolo dopo, attraverso vari passaggi di proprietà, ne divennero proprietari i Mancini Jacobini. La facciata si presenta a due piani più l’ammezzato; al pianterreno vi sono finestre architravate a pagoda alternate a porte di botteghe con cartiglio nell’arco ribassato. Ai piani superiori finestre architravate e incorniciate. Nel cornicione a cassettoni sono scolpiti elementi araldici dello stemma dei Varese, l’aquila ed il castello. Il portale è sovrastato dal balcone ed immette nel cortile con tre ordini di logge.
L’assetto originario del cortile non corrisponde più a quello realizzato dal Maderno che invece era aperto verso il Tevere: dopo i rifacimenti conseguenti ai muraglioni, il cortile è stato chiuso da una loggia con nicchie, busti antichi e sarcofagi. È rimasto il suggestivo portale con bugne (nella foto 15), riccamente architravato, che immetteva nel giardino sul Tevere, oggi scomparso.
Al civico 38 di Via Giulia è situato il Liceo Ginnasio Statale Virgilio (nella foto 16), un edificio scolastico costruito tra il 1936 ed il 1939 dall’architetto Marcello Piacentini sull’isolato tra Via di S.Eligio, Via Giulia e Lungotevere dei Tebaldi, dove presenta un altro ingresso costituito da un grande portale marmoreo sovrastato dal nome dell’istituto e dalla scritta ANNO XVI E.F., ovvero “Anno 16° dell’Era Fascista”, corrispondente all’anno che va dal 28 ottobre 1937 al 27 ottobre 1938. L’edificio fu costruito nell’area precedentemente occupata da edifici antichi, tra i quali il Palazzo del Collegio Ghislieri. Questo Collegio fu fondato nel 1630 dal medico romano Giuseppe Ghislieri, discendente dalla famiglia di Pio V (nato Antonio Ghislieri): la prima sede, nel 1656, fu in Piazza Nicosia, da dove fu qui trasferita dopo una decina di anni. Il Collegio ospitava per 5 anni, a pagamento, 24 giovani appartenenti a nobili famiglie decadute dello Stato Pontificio, più altri 6 ammessi gratuitamente su designazione del Senato, degli eredi di Ghelmino Crotti, che aveva contribuito alla fondazione, e delle famiglie Ghislieri, Savelli, Chigi e Salviati, famiglia quest’ultima sotto la cui protezione era posto il collegio, governato peraltro dall’Arciconfraternita del Sancta Sanctorum. All’estinzione dei Salviati furono nominati protettori il cardinale Carafa di Traetto (attuale Minturno) ed altri porporati tra i quali il cardinale Joseph Fesch, finché nel 1839 il nome dei Salviati fu assunto dal terzogenito della famiglia Borghese ed il protettorato andò così ai Borghese. Il collegio chiuse nel 1928 per difficoltà finanziarie, ma dalla liquidazione del patrimonio per diversi anni si ricavarono borse di studio annuali per studenti meritevoli.
Il palazzo, a due piani con ammezzato sopra il pianterreno, si estende con una fronte di 10 finestre per piano ed apre al civico 38 con un bellissimo portale decentrato, con timpano spezzato curvilineo ed arricchito da un bassorilievo raffigurante la Sacra Famiglia (nella foto 17), posto su una lapide che reca lo stemma bandato dei Ghislieri e l’iscrizione che così recita: “IOSEPH GHISLERIUS PRAE(SE)NTIBUS AEDIBUS PROPRIO AERE COEMPTIS COLLEGIUM FUNDAVIT DOTAVIT ET DE COGNOM(INE) COLLEGIUM GHISLERIUM NUNCUPARI VOLVIT AC PROTECTIONI DEIPA(RAE) VIRGINIS MARIAE ET S IOSEPHI COM(M)ENDAVIT”, ovvero “Giuseppe Ghislieri, acquistato a proprie spese questo edificio, fondò il collegio, lo dotò e volle che dal suo cognome fosse chiamato Collegio Ghislieri e lo pose sotto la protezione della Beata Vergine Maria e di S.Giuseppe”. Anche la porticina al civico 35 conserva tuttora una targa che ricorda il Collegio Ghislieri.
I lavori per la realizzazione dell’istituto scolastico inglobarono anche la Chiesa dello Spirito Santo dei Napoletani (nella foto 18), che risulta tuttora racchiusa su tre lati dalla scuola. Originariamente la chiesa era denominata “S.Aura in Strada Iulia” con monastero annesso. Nel 1572 il cardinale Inigo d’Avalos fondò la Confraternita dei Napoletani ed affidò loro questa antica chiesetta che fu ricostruita completamente: i lavori iniziarono soltanto nel 1619 su disegno di Ottaviano Mascherino e nel 1650 fu ultimata la facciata ad opera di Cosimo Fanzago. All’inizio del Settecento la chiesa subì un’ulteriore trasformazione su progetto di Carlo Fontana ed ancora nel 1853 per volontà dei Borbone di Napoli che commissionarono all’architetto Antonio Cipolla la ricostruzione dell’attuale facciata a due ordini spartiti da lesene: l’ordine superiore presenta un rosone tra gli stemmi di Pio IX e del Regno delle Due Sicilie, mentre quello inferiore custodisce un portale, opera di Giuseppe Palombini, affiancato da due lapidi che ricordano la visita fatta da Ferdinando I nel 1818 e la munificenza di Ferdinando II che consentì i restauri del 1853. Da ricordare che qui per 50 anni, dal 1934 al 1984 (anno in cui, con una solenne cerimonia, furono traslate nella chiesa di S.Chiara a Napoli) furono ospitate le salme di Re Francesco II delle Due Sicilie, della Regina Maria Sofia e della loro unica figlioletta, la principessa Maria Cristina Pia, che vi riposava dal 1870.
Su Via Giulia, subito dopo l’incrocio con Vicolo della Moretta, si trova la secentesca chiesetta di S.Filippo Neri (nella foto 19), popolarmente detta “S.Filippino” per le sue ridotte dimensioni, fondata nel 1603 dal guantaio fiorentino Rutilio Brandi che la dedicò a S.Trofimo, protettore degli affetti da gotta. Annesso vi fu costruito nel 1607 anche un ospedale per preti poveri ed un conservatorio per zitelle, posti sotto la protezione di S.Filippo Neri, e così la chiesa fu dedicata al santo fiorentino. Nel 1728 la chiesa fu completamente restaurata da Filippo Raguzzini, a cui si deve anche la facciata. Nel 1853 tutto il complesso fu danneggiato da un’inondazione del Tevere e per questo motivo fu ristrutturata per volere di Pio IX. La chiesetta ha un curioso merito: vi si conserva un preziosissimo reliquario d’argento, forse l’unico pezzo rimasto a Roma salvato dall’ingordigia napoleonica, perché il parroco di allora non lo volle consegnare, ad onta dell’ordine dato a tutte le chiese di Roma da Pio VI di consegnare tutto l’argento per far fronte alla pesante imposizione del Trattato di Tolentino del 1797. La chiesa, restaurata nel 1993, presenta sopra il portale uno splendido ovale in stucco raffigurante “S.Filippo accolto in cielo dalla Madonna e dal Bambino”, realizzato dallo scultore Tommaso Righi nel 1769.
Il palazzetto settecentesco con ingresso al civico 131, oggi sede di un hotel, custodisce al suo interno una targa marmorea in latino un tempo murata all’esterno dell’edificio. La scritta narra un fatto accaduto nel 1518 quando tal Giovanni Boselli, protonotaro dell’epoca, era proprietario di una mula che, evento eccezionale in quanto l’animale in genere è sterile, partorì. Il parto della mula era interpretato all’epoca (ma tuttora presso alcune popolazioni) come segno di pessimo auspicio e di sciagura e l’unico rimedio per allontanare i guai fosse quello di sbarazzarsi di entrambi gli animali. Il protonotaro, però, non doveva essere un tipo superstizioso se li mantenne con sé ma, superstizione o no, un giorno la mula si imbizzarrì, disarcionando Giovanni ed uccidendolo con diversi calci alla testa. La tragedia accadde proprio a Via Giulia e la targa, tradotta dal latino, così recita: “Se, conforme al costume antico, mi fossi sbarazzato della mia mula e della bestia da lei partorita, forse non sarei sceso tanto presto nella tomba e non sarei oggi citato ad esempio di fatto prodigioso”.
Su Via Giulia, quasi di fronte alla chiesa di S.Filippino, vi sono le Carceri Nuove (nella foto 20), realizzate nel 1655 da Antonio Del Grande su commissione di Papa Innocenzo X Pamphilj, che sostituirono le tristemente note Carceri di Corte Savella.
A quei tempi era ritenuto un carcere esemplare per il trattamento umano garantito ai detenuti, come si rileva dall’iscrizione sul portale (nella foto 21): “IUSTITIAE ET CLEMENTIAE SECURIORI AC MITIORI REORUM CUSTIODAE NOVUM CARCEREM INNOCENTIUS X PONT MAX POSUIT ANNO DOMINI MDCLV“, ossia “Innocenzo X Pontefice Maximo eresse nell’Anno del Signore 1655 il nuovo carcere, per la giustizia, per la clemenza e per una più sicura e umana custodia dei colpevoli”. Alla morte del papa, avvenuta nel 1655, la fabbrica però non era ancora ultimata ma fu terminata dal suo successore, Alessandro VII, che la utilizzò, prima ancora dello scopo per la quale era stata costruita, come “stufa” durante la peste del 1656 per quanti dovevano passare la quarantena. Il palazzo presenta una facciata a mattoni con fasce marcapiano e cantonale in travertino, con sei finestre al pianterreno inferriate, tra le quali si apre centralmente un bel portale con una grande bugna al centro dell’architrave e sormontato dall’iscrizione sopra menzionata. Sopra si sviluppano tre piani di sei finestre ognuno. L’edificio funzionò come carcere fino al 1883, quando subentrò il Carcere di Regina Coeli, mentre questo venne utilizzato solo come custodia preventiva. Successivamente fu utilizzato come carcere minorile finché nel 1931 divenne la sede di un Centro di Studi Penitenziari con biblioteca specializzata e di un ricco Museo di storia criminale. Oggi l’edificio ospita l’Ufficio per la giustizia minorile, una Scuola per la formazione del personale civile penitenziario per adulti, nonché un Istituto per la ricerca delle Nazioni Unite per la difesa sociale.
Nella sezione Roma nell’Arte vedi:
Strada Giulia di G.Vasi
Via Giulia di E.Roesler Franz