Secondo un’antica leggenda l’Isola Tiberina (nella foto sopra) sarebbe sorta dal cumulo dei covoni di grano, appartenuti ai Tarquini, che i romani gettarono nel fiume al momento della cacciata di questi da Roma. La quantità era tale che i covoni, ammassandosi l’uno sull’altro, formarono la massicciata che fu il primo nucleo dell’isola. Un’origine così tarda dell’isola Tiberina sembra difficilmente sostenibile: al momento dei grandi lavori per la sistemazione del Tevere, avvenuti alla fine dell’800, si poté esaminarne il nucleo, che risultò essere costituito di roccia vulcanica, sulla quale si sovrappose, successivamente, una notevole massa provocata dalle alluvioni. La verità è che se il motivo fondamentale della nascita e dello sviluppo di Roma si deve alla sua collocazione topografica sul fiume, è anche vero che proprio grazie all’isola Tiberina, da sempre una sorta di ponte naturale con i suoi banchi di sabbia affioranti dall’acqua e quindi punto di scambio in corrispondenza del crocevia delle due strade più importanti dal punto di vista commerciale, la “via Salaria” e la “via Campana“, si ebbe la nascita di un vero e proprio emporio per la città che si andava costituendo alle sue spalle. Sulla nascita dell’isola Tiberina esiste anche un’altra leggenda, forse anche più famosa della prima: racconta di una nave che, nel 291 a.C., essendo scoppiata a Roma una grave epidemia, salpò verso Epidauro, città sacra ad Esculapio, il più importante dio guaritore della Grecia, con una commissione di dotti romani per chiedere al nume della medicina il suo soccorso. Ma, mentre si svolgevano i riti propiziatori, un serpente enorme uscì dal tempio e andò a rifugiarsi sulla nave romana. Certi che Esculapio si fosse trasformato in serpente, la nave si affrettò a ritornare a Roma. Quando la nave giunse presso l’isola, il serpente scese nel fiume e nuotò fino all’Isola Tiberina, dove scomparve, indicando, in tal modo, la località dove sarebbe dovuto sorgere il tempio: la costruzione, iniziata subito dopo, venne inaugurata nel 289. La posizione del tempio coinciderebbe con la chiesa di S.Bartolomeo: il pozzo medioevale, che esiste ancora presso l’altare della chiesa, corrisponderebbe alla fonte di cui il tempio era certamente dotato. Il tempio costituiva un vero e proprio ospedale: sono rimaste, infatti, varie iscrizioni che testimoniano di guarigioni miracolose, ex voto e dediche alla divinità. Gli ammalati venivano curati “specialmente con l’acqua“, come scrive un grammatico del IV secolo, Pompeo Festo. Nel Medioevo ritornò, come ai tempi pagani, la favola “dell’acqua salutare” che guarisce ogni male ma l’acqua, tratta dal pozzo, risultò inquinata e faceva morire la gente anziché guarirla: il pozzo venne chiuso con due sbarre incrociate e così si trova ancora oggi. A ricordo dell’evento miracoloso l’isola prese la forma di trireme, con tanto di prua, poppa e persino di albero maestro, rappresentato, in origine, da un obelisco (due frammenti del quale sono conservati nel Museo Nazionale di Napoli, mentre il terzo è a Monaco) e poi da una colonna con la croce.
Questa colonna fu denominata “la colonna infame” perché qui veniva affissa una tabella (l’uso durò fin dopo il 1870) nella quale erano indicati i “banditi che nel giorno di Pasqua non partecipavano alla messa eucaristica”. Anche Bartolomeo Pinelli incappò nell’ostracismo ma “er pittore de Trastevere” andò su tutte le furie, non perché additato come miscredente, bensì per il fatto che gli avevano storpiato la qualifica professionale, scrivendo sulla tabella “miniaturista” anziché “incisore”. Spezzata la colonna (per sbaglio o volutamente?) dall’urto violento di un carro, fu sostituita, ai tempi di Pio IX, dal monumento attuale (nella foto 1), opera di Ignazio Jacometti del 1869, sorreggente sulla guglia una Croce ed ornato, nel dado di base, dalle statue dei Ss.Bartolomeo, Francesco di Assisi, Paolino da Nola e Giovanni di Dio.
Nel 997 l’imperatore Ottone III edificò, sulle rovine del Tempio di Esculapio, una chiesa per accogliere i resti di due martiri: San Bartolomeo Apostolo e Sant’Adalberto, vescovo di Praga. La facciata della chiesa (nella foto 2) è un bell’esempio del barocco romano, animata da arcate e nicchie, paraste e finestre nella parte superiore e volute che raccordano i due ordini. Martino Longhi il Giovane, coadiuvato da Orazio Torriani, sono tradizionalmente indicati come autori della facciata, che presenta, sulla sinistra, una bellissima torre campanaria del 1113, nella quale si distinguono bifore e trifore. Sotto il portico sono conservate un’epigrafe metrica che ricorda i restauri eseguiti da Papa Pasquale II ed una targa che indica il livello raggiunto dalle acque del fiume nell’alluvione del 1937.
L’interno (nella foto 3), di tipo basilicale, presenta il transetto e l’abside rialzati ed è diviso in tre navate da due file di antiche colonne, probabilmente appartenute a monumenti romani già esistenti sull’isola. L’attuale pavimento risale al 1739, quando venne sostituito il più antico di tipo cosmatesco. Il soffitto ligneo a cassettoni, inaugurato nel 1624 e restaurato nel 1865, presenta “l’Assunta“, “S.Francesco che riceve le stimmate” e “S.Bartolomeo che rifiuta di adorare le divinità pagane“.
Al centro dei gradini della scala che permette si accedere all’altare maggiore è situato un puteale di un pozzo (nella foto 4), una delle massime testimonianze storiche ed artistiche della chiesa, probabilmente situato nel punto esatto dove, nel tempio di Esculapio, vi era la fonte sacra al dio, anch’essa ricca di acqua miracolosa. Ricavato da un rocchio di un’antica colonna romana, fu intagliato nell’XI secolo in una serie di edicole divise da colonnine tortili nelle quali sono scolpite, a rilievo, quattro figure: Cristo con il libro aperto, un’immagine che suggerisce a chi la guarda l’associazione con le parole riportate dal Vangelo di Giovanni “Chi ha sete venga a me e beva chi crede in me”, un santo (per alcuni S.Adalberto, secondo altri S.Paolino da Nola) in abiti vescovili con il pastorale ed il libro chiuso, l’imperatore Ottone III recante un disco con l’immagine dell’antica chiesa ed infine S.Bartolomeo con il libro aperto ed il coltello del suo martirio. Suddivise tra le quattro facce del puteale si può leggere l’antica iscrizione: OS PU – TEI S(AN)C(T)I – CIR CU(N)DANT – ORBE ROTANTI“, ovvero “I santi in cerchio circondano la bocca del pozzo”. Sulla bocca del puteale sono ben visibili anche i segni lasciati dalla catena che veniva usata per far scendere il secchio all’interno del pozzo per attingere l’acqua. Alla destra del transetto si apre la Cappella degli Orsini, ornata con due leoni stilofori e dagli affreschi che Martino Longhi vi dipinse con scene della “Vita della Madonna“.
Nella parete di sinistra è conservata una palla di cannone (nella foto 5) di cm 14 di diametro che colpì la chiesa, gremita di fedeli, durante l’assedio francese di Roma del 1849, senza che alcuno rimanesse ferito: per questo fu ritenuta miracolosa e murata nel punto dove cadde. L’iscrizione posta sotto la palla così recita: “BELLICUM HOC TORMENTUM IN PERDUELLES E VIA AURELIA IACTUM EXEUNTE IUNIO MDCCCXXXXIX DISIECTOQUE ANTICO PARIETE HUC IMMISSUM SOSPITATRICE MARIA OPIFERA SUPER ALTARE INOPINATO CONSTITIT FRANCISCALIUM QUE INCOLUMITATEM POSTERIS REFERT“, ovvero “Questo proiettile di guerra, lanciato contro i nemici dalla via Aurelia alla fine di giugno 1849 e, sfondato il muro anteriore, qui entrato, per aiuto di Maria Salvatrice si fermò inaspettatamente sull’altare, e comunica ai posteri l’incolumità dei Francescani”. L’altare maggiore fu donato alla chiesa da Pio IX per sostituire quello precedente danneggiato dal crollo della chiesa, avvenuto nel 1557 in seguito ad un’inondazione del Tevere, che trascinò via anche l’antico ciborio medioevale di Martino Longhi il Vecchio.
Sotto l’altare vi è un sarcofago romano in porfido rosso (nella foto 6) del I-II secolo che contiene le reliquie di S.Bartolomeo, come indica il cartiglio che così recita: CORPUS SANCTI BARTHOLOMAEI APOSTOLI, ovvero “Corpo di San Bartolomeo Apostolo”.
Tornati sulla piazza, l’edificio che sorge alla sinistra della chiesa è il monastero francescano, più tardi trasformato in ospizio per gli ebrei vecchi o poveri del vicino Ghetto.
La tradizione dell’isola come luogo di cura non si interruppe con la fine del tempio di Esculapio: nel Cinquecento vi sorse un ospedale gestito dalla Congregazione di S.Giovanni di Dio, i “Fatebenefratelli” (nella foto 7), un soprannome derivante dal suo stesso fondatore, S.Giovanni di Dio appunto, un frate portoghese che per le vie di Granada, vestito di saio, davanti all’ospedale da lui stesso organizzato, era solito rivolgere ai passanti un insolito richiamo: “Fate bene, fratelli!” Era un invito a fare la carità, ma anche del bene alla propria anima. La Congregazione aveva anche la concessione di aprire farmacie e così ne aprirono una accanto all’ospedale.
Nel Settecento l’ospedale fu ampliato ad opera di Romano Carapecchia e poi nel Novecento completamente ricostruito dall’architetto Cesare Bazzani: l’assetto settecentesco rimase soltanto sul lato verso la chiesa di S.Bartolomeo, dove tuttora è in funzione l’antica farmacia (nella foto 8), con la collezione di bellissimi vasi delle più rare sostanze medicinali. L’ospedale vantava inoltre, dal 1599, una buona tradizione dentistica, tantochè nel 1868, alla vigilia dei grandi rivolgimenti di Roma capitale, un frate proveniente dall’ospedale di Firenze aprì qui il suo Gabinetto dentistico, situato tra la spalletta di Ponte Fabricio e l’ingresso della chiesa di S.Giovanni Calibita. In breve fra’ Giovanni Battista Orsenigo (questo era il suo nome), nato a Pusiano, un paese a cavallo tra Como e Lecco, acquistò una fama che travalicò le mura della città, anche perché riusciva ad estrarre i denti senza l’uso delle tenaglie. Li toglieva con le sue mani forti (si racconta che ogni mattina si esercitasse con una mazza ferrata pesante vari chili), mentre palpava le gengive dolenti, eliminando così paura (per le tenaglie) e soprattutto dolore. I denti estratti dal frate furono rinvenuti nel 1903, alla vigilia della sua morte avvenuta l’anno dopo a Nettuno, all’interno di tre casse custodite nel retro del piccolo ambulatorio in cui operava: il frutto di oltre 30 anni di attività diede il totale incredibile di 2.000.744 denti. Fra’ Orsenigo si batté fin da subito perché il servizio fosse gratuito per i poveri ed aperto tutto il giorno: di qui passarono le mandibole dolenti dei pazienti di ogni rango e condizione, dal popolino ai nomi celebri dell’epoca, come Giosuè Carducci, la regina madre Margherita di Savoia, Menotti (primogenito di Garibaldi), Quintino Sella e tanti altri. Nella Roma dei primi anni del ‘900 correva anche voce che nei vialetti dell’isola Tiberina fossero stati posti come “brecciolino” proprio i denti cavati dal frate: i denti c’erano davvero ma non erano quelli estratti da fra’ Orsenigo, che dopo essere stati contati furono scaricati nel Tevere, ma quelli cavati da un suo collega, fra’ Pasquale Mariani, che dal 1888 al 1925 operò a Perugia.
Il complesso ospedaliero è detto anche di S.Giovanni Calibita, dalla chiesa annessa all’ospedale (nella foto 9), che presenta un vecchio chiostro con lunette dipinte nel Settecento. La chiesa sorge sul luogo dove si trovava un altro santuario, il sacello di “Iuppiter Iurarius“, ovvero “Giove garante del giuramento”, dal mosaico con il nome della divinità ritrovato durante alcuni scavi avvenuti sotto la chiesa. La chiesa, che inizialmente era dedicata a S.Giovanni Battista, assunse l’attuale nome soltanto a partire dal Cinquecento, quando fu dedicata ad un altro S.Giovanni, vissuto nel V secolo, che da giovane abbandonò la ricca casa paterna per andare a vivere da eremita in una capanna (in greco “Kalybe“) facendosi riconoscere dalla madre solo in punto di morte. La costruzione della chiesa viene fatta risalire al IX secolo, quando il vescovo di Porto, Formoso, vi si insediò dopo la sua fuga dai Saraceni. Nel 1119 vi si tenne la prima adunanza di cardinali e del clero romano per convalidare l’elezione di papa Callisto II avvenuta a Cluny. Nel 1281 Martino IV la elesse a parrocchia, mentre papa Urbano V, un secolo dopo, soppresse il capitolo dei canonici di S.Giovanni e concesse la chiesa alla congregazione delle Benedettine Santucce che avevano questo nome dalla loro riformatrice Santuccia Terebotti da Gubbio; infine nel 1584 Gregorio XIII concesse la chiesa ai frati seguaci di S.Giovanni di Dio. Una prima importante ristrutturazione della chiesa fu effettuata nel 1640 allorché fu conservata la sola navata centrale per utilizzare le altre due come corsie dell’ospedale. Dal 1676 la chiesa fu dotata anche di un campanile, che fu abbattuto nel Settecento; quello visibile attualmente è un rifacimento del 1930 di Cesare Bazzani. La facciata, invece, è opera di Romano Carapecchia che la costruì nel 1711. Nel 1741 fu rifatta una nuova pavimentazione e l’intera decorazione interna, costituita da marmi, stucchi ed affreschi: questi ultimi di particolare bellezza dovuti all’opera di Corrado Giaquinto.
Sul primo altare a destra è collocata la “Madonna della Lampada” (nella foto 10), un magnifico affresco del XIII secolo chiamata precedentemente “Santa Maria Cantu Fluminis“. In seguito fu detta “Madonna della Lampada” e ritenuta miracolosa allorché nel 1557, secondo la tradizione, trovandosi ancora in riva al fiume, vicino al Ponte Quattro Capi, fu coperta dalle acque del Tevere, senza che ne soffrisse il dipinto e si smorzasse la lampada, prodigiosamente rimasta accesa sul posto.
Fu così che, per conservarla dai danni provocati dal tempo e dal fiume, fu tolta dal suo luogo originario e collocata all’interno della chiesa; all’esterno, sulla sinistra della facciata, possiamo ammirarne anche una riproduzione (nella foto 11). L’isola Tiberina, nel corso dei secoli, ebbe anche vari altri appellativi: “insula Lycaonia“, sia perché in questa provincia dell’Asia Minore esisteva un tempio di Esculapio, sia perché, secondo alcuni, sul Ponte Cestio vi era posta una statua rappresentante questa regione; “isola sacra” per la presenza del tempio, “isola d’Esculapio” e anche “isola di S.Bartolomeo”.
Una torre (nella foto 12) fa da testata a Ponte Fabricio: è quanto rimane di un complesso di edifici costruiti nell’arco di quattro secoli a ridosso del primo elemento architettonico che è appunto la torre eretta dai Pierleoni nel X secolo.
La torre è nota come “Torre della Pulzella” per la piccola testa marmorea raffigurante una giovinetta inserita nel paramento di mattoni (nella foto 13), databile al I secolo d.C. Il palazzo fu residenza della famiglia Pierleoni fino al XII secolo, quando passò ai Caetani che ne fecero la loro residenza dopo averci costruito intorno diversi palazzetti ed aver inglobato nel complesso anche la chiesa di S.Bartolomeo. La famiglia risiedette qui fino al 1470, sottoponendo tutti gli edifici a frequenti restauri perché il complesso era continuamente eroso dalle intemperie e dalle piene del Tevere. La situazione del complesso precipitò con la terribile piena del 1557, che travolse la torre e le annesse costruzioni, nonché la parte destra della chiesa. Degna di menzione la presenza nell’edificio di Matilde di Canossa e papa Vittore III, quando qui si nascosero per sfuggire alle insidie dell’esercito dell’antipapa Clemente II: la torre funzionò pertanto da sede pontificia, anche se soltanto per pochi mesi. Nel 1639 l’edificio fu rilevato dal cardinale Barberini che, dopo averlo restaurato, lo donò al convento dei frati Minori francescani, i quali lo destinarono principalmente all’assistenza dei malati, tanto che negli anni successivi al 1656, dopo la tremenda pestilenza abbattutasi su Roma, l’edificio era comunemente conosciuto con il nome di “Lazzaretto Brutto”. Nella seconda metà del XVIII secolo al pianterreno si insediò l’Oratorio dei Devoti di Gesù al Calvario o “Sacconi Rossi”, una confraternita la cui attività consisteva principalmente nel dare degna sepoltura a quanti annegavano nel Tevere. Dopo il 1870 il palazzo fu suddiviso: i primi due piani e la torre divennero proprietà dello Stato Italiano che lo cedette poi al Comune di Roma, mentre il piano terra ed il mezzanino divennero proprietà private. Nel 1891 il Comune di Roma affittò la propria parte alle Opere Pie Ricovero Israeliti Vecchi e Invalidi, ospedale presente nel palazzo fino agli anni ’60. Dal 1986, a seguito di una delibera comunale, il palazzo è stato designato a sede del Museo Storico dell’Isola Tiberina. Per secoli e fino alla costruzione dei muraglioni e degli argini del Tevere, avvenuta dopo il 1870, ai due lati dell’isola vi erano mulini installati su zattere: vecchie litografie mostrano le piccole costruzioni galleggianti che quotidianamente macinavano la farina per il pane sfruttando la corrente, la quale, però, a volte diventava troppo impetuosa e se le portava via. Il progetto dell’ing. Canevari per la costruzione dei muraglioni conteneva anche un’altra proposta che per la reazione degli archeologi e dei tradizionalisti fortunatamente non trovò approvazione: si voleva sopprimere il ramo del Tevere alla sinistra dell’isola, in modo da unire quest’ultima alla riva. L’isola è “ancorata” alla terraferma tramite due ponti: a sinistra, il ponte più antico, il Fabricio, detto anche “Quattro Capi”, ed a destra il Cestio.
> Vedi Cartoline di Roma
Nella sezione Roma nell’Arte vedi:
Avanzi sull’Isola Tiberina di E.R.Franz
Isola Tiberina di G.B.Piranesi
Chiesa e Ospedale di S.Giovanni di Dio di G.Vasi
39-Isola Tiberina di E.Du Pérac