Belli Giuseppe Gioachino nacque a Roma il 7 settembre 1791 e vi morì il 21 dicembre 1863. Trascorse una fanciullezza triste e difficile: orfano a 16 anni sia della madre che del padre e trascurato dai parenti, conobbe le amarezze e gli stenti di una vita priva di affetti e di protezioni. Iniziò a lavorare prima presso l’amministrazione di casa Rospigliosi, poi quale segretario del principe Poniatowski; fece il copista di memorie legali, impartendo anche lezioni di grammatica, geografia ed aritmetica. Nel 1816 sposò una giovane e ricca vedova, Maria Conti, dalla quale nel 1824 ebbe l’unico figlio, Ciro. Rimasto vedovo nel 1837, ebbe anche il dolore di sopravvivere al figlio. “Io ho deliberato di lasciare un monumento di quello che oggi è la plebe di Roma…..Esporre le frasi del romano quali dalla bocca del romano escono tuttodì, senza ornamento, senza alterazione veruna…eccetto quelli che il parlator romanesco usi egli stesso…Io non vo’ già presentar nelle mie carte la poesia popolare, ma i popolari discorsi svolti nella mia poesia. Il numero poetico e la rima debbono uscire come per accidente dall’accozzamento, in apparenza casuale, di libere frasi e correnti parole non iscomposte giammai, non corrette, né modellate, né acconciate con modo differente da quello che ci manda il testimonio delle orecchie. E dove con tal corredo di colori nativi io giunga a dipingere la morale, la civile e la religiosa vita del nostro popolo di Roma, avrò, credo, offerto un quadro di genere….Non casta, non pia talvolta, sebbene devota e superstiziosa, apparirà la materia e la forma: ma il popolo è questo; e questo io ricopio, non per proporre un modello ma sì per dare una immagine fedele di cosa già esistente e, più, abbandonata senza miglioramento….Così, accozzando insieme le varie classi dell’intiero popolo, e facendo dire a ciascun popolano quanto sa, quanto pensa e quanto opera, ho io compendiato il cumulo del costume e delle opinioni di questo volgo, presso il quale spiccano le più strane contraddizioni.” Queste parole, scritte dal Belli in persona nell’Introduzione ai suoi “Sonetti” (ben 2279), spiegano esattamente le intenzioni del poeta, l’intento di integrale realismo di fornire l’immagine del popolo non come si vorrebbe che fosse, ma come egli è. Giuseppe Gioachino Belli non si limitò a scrivere in romanesco, ma di questo fece oggetto di studio approfondito e sistematico, sino a giungere all’individuazione di norme, regole, comportamenti ed aspetti, configurandolo così come una vera e propria lingua, sino ad allora trasmessa solo oralmente. La monumentale opera del poeta, non soltanto dal punto di vista artistico e letterario, rappresenta dunque una documentazione fondamentale in quanto riunisce nel suo contesto dizionario, grammatica e sintassi del romanesco.