Roma nella Musica

roma nella musica

“Roma nella Musica” è lo spazio dedicato alla storia della canzone romana, dai canti medioevali agli stornelli, dagli anni d’oro di fine Ottocento e primi del Novecentesco fino ai giorni nostri. Per descrivere questo “viaggio” nella musica ci siamo avvalsi di un saggio scritto nel 2007 dal poeta e scrittore Achille Serrao chiamato “Breve storia della canzone romana, dalle origini a Romolo Balzani”, dal quale abbiamo estratto i passaggi più significativi per descrivere l’evoluzione della canzone romana.

«L’inizio della storia del canto romano probabilmente si ebbe con l’ottava, chiamata anche sonetto o romanella, la cui comparsa può farsi risalire al 1200. Di origine popolare e squisitamente romanesca, l’ottava si è mantenuta senza cambiamenti essenziali e si può affermare che è l’unica che rappresenti incorrotta l’espressione del popolo romano. Esemplare non solo dal punto di vista musicale, ma anche testuale, è la strofa qui parzialmente riprodotta (conosciuta come “Bella Quanno Te Fece Mamma Tua“):

Bella quanno te fece mamma tua
credo che stiede un anno in ginocchione…


Nella composizione del variegatissimo mondo canoro romano, un particolare rilievo assumono nel secolo XIV le laudi e le rappresentazioni sacre connesse. La lauda sacra è un canto religioso diffusosi in Umbria e di lì in Italia centrale intorno alla metà del XIII secolo con il movimento dei Disciplinati o Battuti o Flagellanti. Vanno ricordate le laude di Ceccolella, vale a dire di Francesca Bussa de’ Ponziani, poi divenuta santa con il nome di Francesca Romana, fra le quali si cita:

Dodici stelle in testa – so nella toa corona
de sole è la toa vesta – socto alli piedi la luna
bene è quella figura – in te serificata
o Francesca beata – quanto riendi splendori …


Il Quattrocento e il Cinquecento sono secoli di grande fioritura canora. Producono per lo più canti “narrativi” che traggono spunto frequentemente da fatti politici o di cronaca. Gli esempi che possono essere addotti sono innumerevoli. Due di particolare interesse, attestazione peraltro della durata secolare, incredibile talvolta, di una composizione musicale, sono, con “La cena della sposa”, in cui si narra della varietà di cibi offerti in occasione di un matrimonio, la stupefacente “Maramao” che risale al Sacco di Roma del 1527. Sì, proprio la “Maramao” giunta fino a noi con gli opportuni aggiornamenti testuali. In essa si accenna ad un tal Maromau, che sembra fosse capitano di una di quelle orde spagnole il cui nome si rese detestabile per i ricatti e le rapine compiute in danno dei cittadini romani più facoltosi. Ed ecco perché a Roma era poi invalso l’uso di dire “marameo” o “maramao” tutte le volte che furbescamente si volesse alludere a qualche ruberia o marioleria.
Verso la metà del Cinquecento si diffonde il genere poetico-musicale della villanella…che ha attecchito soprattutto in area napoletana, ma che è fenomeno di portata europea. Di origine spagnola (in terra di Spagna si denomina “villancico”) la villanella è una canzone di contenuto agreste…..senza schema metrico preciso: può essere una ballata, una frottola o un madrigale. Come ballata, la villanella è destinata alla danza. La frottola, componimento di origine francese e ispirazione popolare, è nella sua primitiva versione (cd. giullaresca) ricca di proverbi e sentenze, talvolta in forma dialogica e senza una struttura metrica fissa. Come madrigale, la villanella ha larghissima diffusione anche perché, in questa veste, svolge un contenuto amoroso – privilegiato dai versificatori romani – o tratta argomenti morali e politici, prescelti spesso dal compositore per “raccontare” avvenimenti politici, appunto, o di cronaca. Autore apprezzato di frottole è, nel secolo XVI, Bisanzio de Lupis, detto Lupone, che compone “Matre mia mariteme”. Nell’Ottocento ritroveremo il canto alquanto trasformato nella nota “Mamma mia, me moro, me moro”. Oltre ai sonetti (romanelle, le ottave che abbiamo visto all’origine del canto) e alle villanelle, a Roma in questo periodo, per bocca di cantastorie girovaghi e dei cantambanchi, sono in voga altri generi di canzoni come le Giudiate, rivolte agli ebrei e eseguite specialmente nel tempo del Carnevale, e le Zingarelle o Zingarate, che si trasformeranno, le une come le altre, in tarantelle. Una particolare menzione meritano, nella breve storia che sto tentando di tracciare (con evidente privilegio per la testualità, più che per la musica che con essa si combina), le ninne nanne, che si cantano per lo più sulla stessa melodia dei sonetti, adattata a seconda del numero dei versi, in massima parte endecasillabi. Costantemente riprese, per fecondare il sonno dei piccini, fino alle soglie dell’Ottocento sono le ninne nanne :

Fatte la ninna ch’è passato Peppe
e già l’ho intesa la camminatina …

e

Ninna-ò! Ninna-ò!
che pazienza che ce vo’…


Anche nel Seicento….di tutta evidenza è l’antica ottava. Che può assumere strutture e nomi più svariati, ma che sostanzialmente resta fedele alle origini e, per la sua sonorità (e “carattere”, si potrebbe dire), si afferma emblema canoro romano. Il popolo dell’Urbe resta, dunque, fedele alla sua tradizione, inventa in aggiunta lo stornello che diventerà il canto preferito delle belle minenti romane. È un canto amoroso o contadinesco…..per l’invocazione floreale che gli dà l’avvio, lo stornello è detto anche fiore. Fra i numerosissimi, tutti anonimi, cantati all’epoca e per lunga durata, se ne segnalano tre: il primo

M’affaccio alla finestra e vedo l’onne
vedo le mie miserie che so’ granne
chiamo l’amore mio, nun me risponne …

e, ancora:

Fiore de canna
si fussi fija de casa Colonna
nun saressi co’ me tanto tiranna …

infine, il più pregnante, il cosiddetto “Canto del carcerato” (o “Alla Renella“):

A tocchi a tocchi la campana sona
li mori so’ arivati a la marina
chi cià le scarpe rotte l’arisola
io l’ho già arisolate stammatina …

Il Settecento non offre novità di rilievo. Sulla scorta di moduli già collaudati, la produzione canora si divide adeguatamente fra sonetti, frottole, stornelli e tarantelle (che fanno la loro prima comparsa). Ma con la fine del secolo, sotto la spinta di fatti politici legati alla rivoluzione francese, si assiste ad un fiorire di canti, dapprima in dichiarata opposizione alle nuove idee d’Oltralpe, poi via via inclini alla loro accettazione o alla totale adesione. Come in questa “Partenza amara”, in cui l’amato alla sua donna disperatamente dichiara:

Oh, che partenza amara:
Nina mia cara
Nina mia bella!
so’ nato a Roma e vado a mori’ in guerra…

Alla richiesta di uomini da parte di Napoleone per fronteggiare le necessità delle sue guerre, il popolo dei coscritti romani risponde con canzoni di dolore, prima lamentando la perdita possibile del bene più prezioso, di cui ci si avvede soprattutto in momenti di distacco: la donna.

Sei bella nell’occhi
sei bella ner core
sei tutta un amore
sei nata pe’ me
Ah, no! no nun piagne
coraggio ben mio
quest’ultimo addio
ricevi da me …

poi, indirizzando il verso direttamente alla persona dell’imperatore:

Napulione guarda quer che fai
la mejo gioventù tutta la vôi
de la vecchiaia poi che ne farai? …

Cade nella polvere il chiamato dalla sorte a mutare i destini d’Europa, i Francesi sono costretti a lasciare Roma e i giovani romani, fra liberatorio e ironico, cantano:

Musiù, Musiù
l’acqua de Trevi nun la bevi più …

Intanto conferma insospettate possibilità espressive lo stornello, che diviene lo strumento per eccellenza della creatività romana. Nei primi anni dell’Ottocento se ne scrivono moltissimi, tutti di elevato livello e tutti pressocchè di contenuto amoroso, com’è fra i primi destini dello stornello. Uno, in particolare che riporto di seguito solo in parte, per ovvie ragioni di spazio:

Tutte le notti in sogno me venite
diteme bella mia perché lo fate
diteme bella mia perché lo fate
e chi ce vie’ da voi quanno dormite?
Vola vola l’aritornello
core mio bello nun me scorda’ …
Pe’ vole’ bene a voi ce n’ho passate
de pene e patimenti e lo sapete
de pene e patimenti e lo sapete
e adesso bella mia così me fate
Vola vola l’aritornello …

Con lo stornello, nell’Ottocento si diffonde la tarantella. La tarantella a Roma era un componimento popolare di forma rude e di natura estemporanea a rime baciate che si cantava e declamava sino a diversi anni dopo il Settanta, per le strade e le osterie. Di contenuto molto vario, talvolta ha ad oggetto fatti di cronaca… Lo stornello la fa da padrone indiscusso. Particolarmente riuscito quello che porta il titolo di “Colsi la rosa”, una canzone “pepata” per duetto e coro in cui sembra condensarsi tutto l’estro inventivo popolare e lo spirito acrimonioso del romano, pungente e sentenzioso talvolta fuori misura. Altro, di rilievo, è lo stornello intitolato “Occhio morello”, che nella solo apparente diretta dicibilità nasconde risvolti di natura politica, allusioni ad avvenimenti prossimi di portata storica (la breccia di Porta Pia e, di lì a poco, l’Unità d’Italia). Si rileva quanto siano state importanti le “Osterie” come palestre di canto, luoghi spesso di improvvisate esibizioni e di invenzioni, sia da parte dell’avventore occasionale che da parte di artisti di varietà. Qui lo stornello, ancora lo stornello, trova adeguato spazio per vere e proprie battaglie a colpi di vino e di ugola. Vi si canta, fra gli altri:

A fa l’amore giù pe’ Borgo Pio
bisogna annacce cor cappello in mano
bisogna sape’ dì cuoruccio mio
Sora Menica – Sora Menica
oggi è domenica – lasceme sta’ …


E insieme con le osterie, occasione di esibizione offrono i teatri, il café chantant e le innumerevoli Feste popolari: dalle più antiche di Nagona (Piazza Navona) e Testaccio a quella di Maggio, alla più recente di San Giovanni Battista, la cosiddetta Festa delle Streghe, descritta dal poeta Giggi Zanazzo in uno dei suoi lavori sulle tradizioni popolari (al n.170): un vero e proprio festival cui tanto deve la diffusione e la storia della canzone romana. Il 1891 è l’anno ufficiale di nascita della Festa di San Giovanni, ma è anche anno rigoglioso di canzoni di egregia fattura, composte da autori (Nino Ilari e Antonio Guida, Umberto Persichetti e Luigi Angelo Luzzi, tanto per fare alcuni nomi) che per lungo tempo occuperanno la scena creativa romana. Un ruolo davvero non secondario iniziano a svolgere ora gli editori di musica e in questa veste merita una menzione particolare Edoardo Perino, piemontese di nascita ma romano di adozione, fondatore peraltro del giornale “Rugantino de Roma”, strettamente legato alla storia della poesia locale per lungo tratto dell’Ottocento e del Novecento… Ma è il 1893 l’anno di maggior pregio e affermazione del canto romano. È l’anno di “Affaccete Nunziata”, nata dalla collaborazione fra Ilari e Guida. Si tratta di una serenata, il cui componimento poetico è costituito da un certo numero di “rispetti” che si caratterizzano per il loro contenuto- omaggio (il complimento) alla donna amata. “Affaccete Nunziata” entrerà più tardi nel repertorio di Ettore Petrolini, come la serenata “Occhietti belli” di Persichetti e Luzzi. Ma già Gioachino Belli circa cinquant’anni prima aveva esaltato il canto prettamente romano di cui si sta parlando, con un sonetto intitolato, appunto, “La serenata”, musicato anni dopo da Alessandro Parisotti. Sonetto e musica rendono in felice connubio tutta la dolcezza di un canto notturno e la passione che vi si accompagna. I profili di tre personaggi autori e interpreti mi aiuterà a concludere questo davvero rapido excursus nei territori del canto romano. Tre personaggi emblematici, rappresentativi ciascuno a suo modo di un periodo storico ricco di inventività, ma gonfio anche di eventi luttuosi di guerra, di eccidi, di deportazioni in nome di una logica della sopraffazione, imperiale e non, che non ha mai cessato di regolare i rapporti umani. Il primo personaggio è un soggetto corpulento, quasi una maschera da “Patente” pirandelliana, probabilmente per via degli occhiali scuri che indossa sempre. Ha una voce gradevole nella media della gradevolezza, intonatissima, veste di scuro preferibilmente, scrive tarantelle e stornelli e li scrive nell’arco di vent’anni (1900-1920) senza interruzioni, facendosi carico, nel ruolo di allegro censore, di vizi errori ed omissioni d’ogni natura e colore politico; l’ultimo dei Rugantini, insomma, come è stato definito da più parti. Sto parlando di Pietro Capanna detto “er sor Capanna”. Capanna, ultimo autentico interprete di desideri e umori popolari, va in giro per le strade, si ferma nelle osterie spesso insieme alla sua compagna, canta, e canta tarantelle che dicono di cronaca locale, come “Il delitto Formilli”, ovvero il delitto “dell’uomo che a Ponte Ripetta aveva buttato a fiume la propria moglie”. Ma anche la critica a comportamenti omissivi degli amministratori della cosa pubblica diventa materia di canto per il suo spirito corrosivo, e così la precaria situazione economica del momento e, più tardi, la non meno precaria situazione politica. Il cantastorie Capanna non trascura alcun aspetto della vita pubblica cittadina e nazionale : tutto può consuonare con la sua vena poetico-musicale davvero sorprendente. Una breve digressione. Mentre Capanna sta creando una delle sue strofe piccanti, trionfa alla Festa di San Giovanni una delle più belle serenate mai composte (autori Romolo Leonardi e Amerigo Marino) dal titolo “Nina si voi dormite”, una combinazione di sublime e tenero, di aereo e passionale, una canzone suadente, rasserenante e in grado fin troppo di intenerire:

‘Nde ‘sta nottata piena de dorcezze
pare che nun esistono dolori!
Un venticello, come ‘na carezza,
smove le piante e fa bacia’ li fiori.

Nina, si voi dormite,
sognate che ve bacio,
ch’io v’addorcisco er sogno
cantanno adacio adacio!

L’odore de li fiori se confonne
cor canto che se perde tra le fronne!


Molti testi di Capanna entreranno nel repertorio di Ettore Petrolini, il funambolo diseur, danseur, autore di copioni teatrali, inventore di maschere, attore e affabulatore straordinario, maestro e giocoliere di lingua adulterata mai consolatoria: unico, in una parola. Davvero Petrolini ha marchiato con il fuoco della sua versatilità l’Italia dell’arte del primo trentennio novecentesco e ancora oggi prolunga la sua ombra riconoscibile su tante operazioni linguistico-letterarie e teatrali. Debutta nel 1903 con la canzone “Il bello Arturo” al Gambrinus di Roma (situato nell’allora piazza Termini) in veste di buffo di caffè-concerto. In questi stessi panni crea e interpreta le maschere di Fortunello e di Gastone, presenta con successo il personaggio di “Giggi er Bullo”. Ma quando è sera e una folla attenta e plaudente invade lo Jovinelli o il Bellini o la Sala UmbertoPetrolini, che ha già cantato stornelli e si è esibito in macchiette, indossa tenerezza e passione e con un filo di voce che appena arriva al balcone di cartapesta dell’innamorata, intona “Affaccete Nunziata”. Scrivono della sua performance: indimenticabile. L’ultimo personaggio cui accenno a conclusione di questa nota incompleta è Romolo Balzani, cantautore e attore, attivo negli anni Trenta. A lui si deve la musica di due gioielli della canzone romana: “L’eco der core” (una serenata) e “Barcarolo romano” (forse uno stornello) che ancora oggi si intonano e che per molto tempo hanno fatto parte del repertorio di valentissimi cantanti (la indimenticata Gabriella Ferri, fra gli altri).»

Il saggio di Achille Serrao termina quindi nel periodo del primo dopoguerra, ovvero quando la canzone romana fu sottoposta all’attacco delle nuove canzoni straniere, soprattutto americane, e per questo motivo proliferarono molti testi che esprimevano l’attaccamento alla tradizione romana come “Roma forestiera” o “Vecchia Roma”, entrambe del 1947. Chi si prodigò per tenere viva la tradizione canora della melodia romana fu senza dubbio Sergio Centi: eccellente chitarrista, le sue interpretazioni, seppure calde ed appassionate, mantennero sempre uno stile sobrio e asciutto. Chi ricordava più di tutti Romolo Balzani fu senza dubbio Alvaro Amici, nato nel 1926 e noto per i suoi stornelli e per aver iniziato la sua carriera come “posteggiatore” nei locali tipici di Trastevere: sono chiamati “posteggiatori” quegli artisti che, spesso armati di chitarra, cantano o suonano spostandosi da un locale pubblico all’altro. Sempre nel 1926 nacque Claudio Pica, in arte Villa, anche lui trasteverino. Il suo repertorio non comprendeva soltanto canzoni romane ma le sue interpretazioni di canzoni come “Barcarolo Romano” o “L’eco der core” fino a “Vecchia Roma” ne fecero uno dei più grandi interpreti della canzone romana. Importante anche fu il ruolo della commedia musicale per la diffusione della canzone romana nel secondo dopoguerra. Nomi come Renato Rascel o Aldo Fabrizi non hanno bisogno di commenti e neanche canzoni come “Arrivederci Roma” e “Venticello de Roma”. Fondamentale fu il ruolo di Garinei e Giovannini con il “Rugantino” del 1962: le melodie di Armando Trovajoli come “Roma, nun fa’ la stupida stasera” e “Ciumachella de Trastevere” fecero raggiungere al binomio tra commedia musicale e canzone romana un risultato eccezionale. “Rugantino” fornì alla canzone romana anche un interprete significativo, Lando Fiorini, che divenne uno degli esecutori più conosciuti del repertorio di canzoni classiche romane. Altro eccezionale interprete è Gigi Proietti che si è imposto al pubblico per le sue interpretazioni del repertorio di Ettore Petrolini e che ha reinventato il repertorio romanesco classico con interpretazioni di brani come “Nina, si voi dormite“, “Barcarolo romano” e “Nun je da’ retta Roma”, una canzone estratta dal film “La Tosca” e composta da Luigi Magni ed Armando Trovajoli. L’unica cantante donna di prestigio è stata Gabriella Ferri che seppe interpretare le canzoni romane con lo spirito satirico e beffardo, pur se sempre velato di malinconia: fu lei che fece riscoprire, in duetto con Luisa De Santis, un vecchio canto popolare come “La società dei magnaccioni“. Belle pagine della canzone dialettale romanesca sono state sicuramente scritte da Franco Califano che ha saputo cogliere con le parole e le note gli umori di una città sempre più anonima. Il cantautore odierno che più di tutti rappresenta il senso di appartenenza a Roma è Antonello Venditti: anche quando alcuni suoi titoli possono far pensare ad una canzone “romanesca”, in realtà si tratta di brani che costituiscono un vero e proprio rinnovamento del modo di cantare, basti pensare a “Sora Rosa” o “Roma Capoccia”, sicuramente due delle più belle canzoni romane del secondo dopoguerra.

“Roma nella Musica” vi propone anche l’ascolto ed i testi dei brani più famosi della Storia della Canzone Romana: periodicamente aggiungeremo nuove canzoni.