“Non senza motivo gli dei e gli uomini scelsero questo luogo per fondare la Città: colli oltremodo salubri, un fiume comodo attraverso il quale trasportare i prodotti dell’interno e ricevere i rifornimenti marittimi; un luogo vicino al mare quanto basta per sfruttarne le opportunità ma non esposto ai pericoli delle flotte straniere per l’eccessiva vicinanza al centro dell’Italia, adattissimo per l’incremento della città; la stessa grandezza di quest’ultima ne è la prova“. Così scriveva Livio ed il suo elogio della posizione geografica di Roma, che ricalca il pensiero formulato da Cicerone nel suo “De re publica”, mostra che gli antichi fossero consapevoli del fatto che le ragioni della scelta del luogo su cui sarebbe sorta la città fossero state di natura prettamente economica. La presenza del fiume fu talmente importante per la nascita della città che Servio, vissuto tra il IV ed il V secolo d.C., arrivò a sostenere che il nome arcaico del Tevere, “Rumon” o “Rumen” (la cui radice deriva da “ruo”, ovvero “scorro”), diede il nome alla città, sicché Roma avrebbe significato “Città del Fiume”. Lo stanziamento della città si colloca in un punto strategico dal punto di vista geografico, ossia presso l’ultimo guado del Tevere, a poca distanza dal mare e soprattutto dalle saline, che rifornivano le popolazioni dell’interno di un prodotto essenziale per la pastorizia e per la conservazione degli alimenti. Quindi la via d’acqua tiberina, naturalmente collegata con il mare, fu da sempre il percorso più agevole e conveniente per i trasporti ed i commerci. Piccole e grandi navi, dopo aver solcato il Mediterraneo, risalivano il Tevere con la forza dei remi e con quella delle funi, manovrate da schiavi o da animali. Il centro d’approdo più antico fu il “portus Tiberinus“. Le imbarcazioni scaricavano le loro mercanzie e ripartivano con i prodotti delle fiorenti industrie cittadine: in quel periodo, infatti, a Roma si confezionavano in serie vestiti, tuniche, toghe, sai, coperte, scarpe, ma anche pezzi grandi come aratri e gioghi, nonché i cesti di vimini, i famosi “cesti romani”. Nella Roma imperiale il commercio ed il traffico fluviale assunsero la massima espansione e da tutto il mondo romano giungevano i prodotti più svariati, dalle spezie ai legni pregiati, ai marmi orientali. Di conseguenza lo scalo divenne insufficiente alle crescenti esigenze di Roma ed al grande traffico: sorse, quindi, più a sud, il nuovo porto, l’Emporium, con lo scalo-deposito dei marmi, Marmorata ed alle spalle il colossale complesso degli “Horrea“, ovvero l’insieme di magazzini e depositi delle merci. Tutta la riva sinistra del fiume, dalla zona del Foro Boario al Testaccio, rimase il punto d’attracco fondamentale fino alla fine dell’impero ed ebbe un suo incremento commerciale nel VI secolo per i numerosi coloni greci che vi si stabilirono, avendo come centro la “Schola Graeca” collegata a S.Maria in Cosmedin: perciò questa riva si chiamò “Ripa Graeca”. Verso la fine del IX-X secolo, gli scali fluviali che riguardavano i passeggeri si trasferirono sulla riva opposta, nei pressi di porta Portese, in quella che si chiamò “Ripa romea” dai pellegrini (“romei”) che, provenienti dal mare, vi sbarcarono in numero sempre crescente: era il Porto di Ripa Grande. Accanto al fiume e sul fiume si svolgevano tanti altri mestieri che sfruttavano l’acqua e la forza motrice del Tevere: gli “acquaroli”, ossia i portatori e rivenditori di acqua (dobbiamo ricordare che fino a poco più di un secolo fa l’acqua del Tevere era potabile) che nel basso Medioevo e nella prima età moderna costituivano una delle più antiche associazioni di mestiere e che fondarono anche l’Ospedale del Salvatore; i “barcaroli” o “navicellari”, gli “scaricatori di barche”, i “molinari”, che lavoravano ai molini situati principalmente presso l’isola Tiberina, dove sfruttavano la corrente impetuosa scaturita dal restringimento del corso del fiume, i “famòle” o costruttori di mole di pietra per molini, i “carpentieri” e “falegnami” costruttori di barche, i “pescatori” ed i “pescivendoli” (il fiume offriva copiosi e svariati frutti della pesca, a cominciare dallo storione), i “barilari”, i “marinai”, ma anche le beccherie, le tintorie, le concerie di pelle e cuoio, le gualcherie (per compattare e rassodare i pannilana) erano tutte situate presso il fiume. Certamente il rapporto di Roma con il fiume non fu solo d’amore o di attività produttiva; fu anche un rapporto di odio e distruzione, scaturito dalle situazioni drammatiche che la Roma “bassa” era costretta a vivere per le numerose inondazioni del fiume, che provocavano danni ingenti, spesso irreparabili, seguiti, a causa del fango, della melma e delle acque stagnanti, da grandi epidemie, in special modo di tifo. Dopo ogni inondazione i “bandi” delle autorità cittadine imponevano a tutti la rimozione del “lezzo”, cioè del fango maleodorante, o perlomeno la sua concentrazione al centro delle grandi strade e piazze per facilitarne il trasporto fuori città. Su molte mura delle case più antiche in prossimità del Tevere si possono ancora notare le targhe che indicano il livello raggiunto dalle acque. Sotto questo punto di vista l’arrivo dello Stato Italiano, dopo il 1870, significò una vera e propria rivoluzione nel rapporto tra città e fiume con la costruzione dei muraglioni, che, seppur eliminando il problema delle inondazioni, distrussero un rapporto che durava da millenni. Per ridurre il rischio di inondazioni future si provvide anche ad uniformare il letto del fiume, portandolo tutto ad una larghezza di 100 metri circa (110 alla sommità degli argini), rettificandone parzialmente il tracciato per vari chilometri. I lavori, iniziati nel 1876, si conclusero in pratica cinquant’anni dopo, nel 1926. Questa grande operazione idraulica, progettata e realizzata dall’ingegner Raffaele Canevari, costituì la fine di un incubo ma a scapito di un sostanziale cambiamento di tutto l’ambiente tiberino, tra la demolizione di paesaggi e ambienti irripetibili come i porti di Ripetta, di Ripa Grande e Leonino, le modifiche di antichi ponti romani come il Cestio o il S.Angelo, estraniando il fiume dal contesto cittadino, isolandolo all’interno di una “gabbia” che lo vide sempre più nero e sempre meno “biondo”.
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